Wagner Richard

(1813-1883)

Siamo in una fase di lutto della memoria, e i lutti vanno elaborati chiamando a raccolta le risorse culturali che si posseggono”, spiega il maestro. E Wagner “è una grossa risorsa”

Giuseppe Sinopoli su Wagner – leggi di più…

Con wagner alla riscoperta dell’identità europea

Nel tempio di Bayreuth, Giuseppe Sinopoli affronterà da domani le alchimie sonore dell”Anello del Nibelungo’. È il primo italiano nei 124 anni di storia del Festival cui sia stata affidata la monumentale ‘Tetralogia’: una ‘cavalcata’ di 15 ore. Un grande onore, trattandosi del ‘Ring’ che apre il nuovo millennio. Una sfida che, da intellettuale bulimico (mentre era al conservatorio è diventato medico-psichiatra, e ha poi studiato filosofia e archeologia) e cosmopolita (ha vissuto tra Austria e Germania quanto in Italia), affronta con un pensiero fisso: riflettere e far riflettere sull’eclissi del mito, la memoria perduta, la solitudine dell’uomo e il dramma del potere. Temi nei quali si è rispecchiato nelle settimane di prove e che – dice, svelando certe sue ansie – «potrebbero aiutarci a uscire dall’incoscienza che ci uccide un poco ogni giorno, svuotati dalla globalizzazione: una dittatura che omologa il mondo, verso un basso profilo». Per cui il rapporto sonno-sogno-conoscenza che innerva e scandisce l’opera wagneriana gli sembra quasi un itinerario pedagogico, da ripetere. Ma non è velleitario pensare che il suono di quelle note possa risvegliare un’Europa intorpidita, dove identità e radici sembrano a rischio? Wagner l’antidoto contro la globalizzazione, un «dominio» anonimo e invisibile quanto l’orchestra di Bayreuth? «Siamo in una fase di lutto della memoria, e i lutti vanno elaborati chiamando a raccolta le risorse culturali che si posseggono», spiega il maestro. E Wagner «è una grossa risorsa, specie oggi, dato che all’eliminazione delle identità di gruppo corrisponde il risveglio di super-identità dal carattere aggressivo-emozionale». Ha in testa il caso Haider, Sinopoli, con i suoi «rigurgiti volgari di sentimenti, pericolosi perché rischiano di avere brutti riverberi anche nella cultura»: un fenomeno che non dovrebbe comunque contemplare risposte emozionali, perché «ha una base molto diversa dai nazionalismi di fine Ottocento, che s’incardinavano su una colonna ideologica forte e su un altrettanto robusta colonna economico-finanziaria». Il leader carinziano non meriterebbe dunque tutte le inquietudini che suscita, perché «dietro di lui c’ è un vuoto di pensiero» e del resto la stessa Vienna «non ha un potere economico o militare tale da preoccupare». Ma non era forse «vuoto di pensiero» pure il nazismo, che tentò di utilizzare proprio Wagner? «Per capire quell’operazione, bisogna andare al Wagner che si ripresenta in questo Paese nel 1876, al termine di un lungo esilio e dopo esser stato sulle barricate con Bakunin contro il sistema dei prìncipi tedeschi. Rientra, e all’inaugurazione di questo santuario trova Guglielmo I, la persona che aveva combattuto. Per far nascere il ‘progetto di Bayreuth’, un sogno sociale che il musicista aveva condiviso con Nietzsche, ha dovuto venire a patti con il liberalismo manageriale tedesco. Per cui se quando partì era Sigfrido, cioè l’antinomia dello Stato borghese, ora che torna è Wotan, è lui stesso un principe, uno che affronta il futuro come se le idealità fossero fallite e non restasse altro che rifugiarsi in un’ufficialità appunto borghese: una svolta che rientra nell’ opportunismo che purtroppo caratterizza la sua personalità, con il bisogno di riconoscimenti, potere, danaro. A questo punto avviene il distacco con Nietzsche, che parla di arte malata e lo accusa d’ essere un istrione, un genio scenico che schiaccia e allaga la coscienza con l’enorme forza del gesto. C’è del vero, in quel giudizio, e qui io colloco il limite e il pericolo dell’opera wagneriana: quando, in certi casi, alla tragicità del gesto non corrisponde la tragicità del pensiero. Su questa faglia, su questa fessura, è stato possibile al nazismo usare Wagner, perché il nazismo non è tragicità di pensiero, ma tragicità gestuale, è un palazzo con le pareti di carta e vuoto dentro, una sorta di super-apparizione del gesto in cui il pensiero non esiste. Naturalmente il pensiero tragico in lui esiste, e va connesso alla tragicità nel senso greco, del pensiero che sonda la sofferenza, la difficoltà a esistere, il male che porta dolore e perdita». Insomma: se si crede all’innocenza dell’arte, Wagner è al di là del bene e del male, al di là di destra e sinistra. Tuttavia ha senso reclutarlo a testimonial contro la rivoluzione in corso? Si può attribuirgli una simile responsabilità? «Il suo è un caso tipico in cui la musica non esaurisce il proprio compito nell’espressività: pone anche problemi di gnosi, di conoscenza che si allarga alle questioni politico-sociali. Ci induce alla coscienza del vuoto e, proprio nella ‘Tetralogia’, ci mette dinanzi alla tomba del mito, il che oggi è già un’autoterapia». E l’ultimo mito del Novecento è stato per Sinopoli il comunismo: «Nacque come estremo tentativo d’innalzare l’uomo a una grande dignità ed ebbe una stagione affascinante nell’elaborazione che ne fece Ernst Bloch, con i concetti di utopia e speranza. Era il solo modo per superare la pietrificazione del potere dello Stato, ma tutto è finito come sappiamo: quell’ idea di un umanesimo marxista ha subito colpi drammatici, è stata manipolata e malmenata, Bloch buttato fuori dal suo Paese, il comunismo defunto». Dopo è venuta la tabula rasa nella quale beatamente galleggiamo, in una «vacanza dello spirito» che turba il maestro: non sapendo più cosa eravamo, non riusciamo neanche a immaginare cosa diventeremo. Ora, poiché lui ama ripetere che gli interessano «i periodi di crisi che racchiudono la fine di qualcosa e già contengono quel che verrà», che cosa vede nel nostro orizzonte? «La paura, una paura planetaria. Come spiegava Nietzsche, è il sentimento fondamentale dell’uomo, che se ne difendeva attraverso la scienza. Adesso, poiché le ideologie sono annichilite e la scienza è irraggiungibile, protetta nelle sue torri d’avorio, siamo dominati dall’angoscia, e lo dimostra l’uso sempre più massiccio di psicofarmaci. Ma ci interessa vivere in un mondo sotto narcosi? Da dove crediamo che abbiano origine certe sgangheratezze del New Age o certi nazionalismi beceri e aggressivi? Da questa paura per cui tutti si sentono aggrediti: provi a guardare un passante in faccia a New York e osservi come reagisce». Eppure, nonostante il disagio mentale di massa e le slogature culturali, la globalizzazione viene spacciata come un’età dell’oro. «Sì, la fanno apparire come un fenomeno di salvazione, missionario, che distribuisce benessere con il sistema dei vasi comunicanti», s’infervora Sinopoli. «Invece è un rullo compressore di identità e memorie. Un potere opaco e indistinguibile, che demoralizza l’uomo e non riconosce alle differenze il diritto di esistere. Teniamoci caro Wagner, ascoltiamo la sua musica e riflettiamo sul pensiero che c’è dentro, perché un po’ ci immunizza contro tutto questo».

A cura di Marzio Breda, Corriere della Sera, 25.7.2000

Sinopoli: la mia Elektra al sangue

“Strauss mi ricorda la pittura di Klimt, ma ho lasciato sbizzarrire Ronconi

Da una parte, i libri di egittologia, sui quali Giuseppe Sinopoli studia dalle 7.30 alle 9.30 («una meditazione da monaco»): come a simboleggiare lo spazio intimo e profondo dove nasce l’approccio alla partitura di Strauss, che il direttore d’orchestra porterà dopodomani alla Scala. Dall’altra, le invenzioni di Luca Ronconi e di Gae Aulenti, pilastri neri quasi di catrame, piastrelle insanguinate della macelleria, quarti di carne: cioè la macchina del teatro, la fucina dove la partitura diventa opera, spettacolo.

I registi sono spesso la croce dei direttori. Sinopoli, che debutta in un’opera alla Scala, spiega: «Ho bisogno di registi con i quali ci si intenda in due parole. Ma non bisogna essere troppo rigidi. La musica, il corpo, lo spazio scenico hanno linguaggi diversi, e non è detto che chi sa gestire il suono sia padrone anche del resto.» […]

Sono stati giorni di lavoro severo, quelli di Sinopoli con l’orchestra scaligera, che oggi culminano con la prova generale: «Ha mostrato – dice – una serietà e una qualità d’impegno notevoli. La musica esige un serio lavoro artigianale.» La concezione estetica viene dopo: «Qui interviene la cultura personale. Un suono, un timbro, sono legati a suggestioni psicologiche, al contesto storico. Non si possono ignorare, a proposito di Strauss, la pittura di Klimt e Schiele, l’impressionismo. E conoscendo la metrica greca, scopro ritmi classici in questa partitura di danza che è ‘Elektra’.»

Sinopoli predilige il repertorio tra ‘800 e ‘900: «Una scelta nata da un problema culturale che per me è anche esistenziale. La crisi, il trapasso del secolo. E la ricerca degli antecedenti, fino a Beethoven. Indagherò più tardi il ‘700. Nella mia ricerca rientrano anche Elgar e Puccini, non un verista ma un tipico prodotto della crisi della borghesia italiana. Mi sento profondamente italiano, per me ha un grande peso anche Verdi: energia mediterranea che rimanda a modelli primordiali, violenza espressiva unita a una semplicità musicale. I miei progetti sono Verdi, Puccini, Wagner, Strauss.» Strauss: «È l’autore che più mi ha dato da pensare.» Perché – spiega Sinopoli – bisogna scoprirne gli elementi innovativi, ciò che è solo apparentemente conservazione. Non ama le etichette, il maestro, ma per Strauss propone cautamente l’aggettivo ‘postmoderno’, tra virgolette. Affronterà la ‘Donna senz’ombra’, «poi spero di dedicargli un saggio».

Dal ’92 Sinopoli guida la Staatskapelle di Dresda: il contratto scade nel ’97 ma già la programmazione si spinge oltre. Un direttore e un’orchestra: «Il segreto del legame sta nell’onestà. Se c’è onestà culturale e di rapporti sociali, allora s’instaura un vero scambio. Altrimenti si lavora in una rigidità che si riflette nelle esecuzioni. A Dresda il rapporto è di onestà, bellissimo.»

La situazione politica italiana gli strappa una smorfia sconsolata, quella tedesca parole pesanti: «La riunificazione non è ancora avvenuta. Nè psicologicamente nè economicamente. E nella cultura le cose sono difficili.» A Berlino la musica è sostenuta generosamente, «a Dresda invece lavoriamo in apnea. I professori dell’orchestra prendono il 20% in meno che all’Ovest, tra mille problemi pratici, una prospettiva che allontana i musicisti occidentali. Ho proposto a chi viene a dirigere la Staatskapelle, per esempio Levine, Ozawa o Barenboim, di ridursi il cachet del 40%, come me. E se voglio fare un’opera devo chiedere la carità ai cantanti, che altrove guadagnerebbero il doppio». Un’idea anche per l’Italia? «Anni fa, a Santa Cecilia, proposi di calmierare gli ingaggi. Arriveremo ad esserci costretti tutti. Nessuno sa cosa significa dirigere un’opera lontano da casa, parlare coi figli al telefono… Io prenderei un decimo rispetto a ora, pur di lavorare vicino alla famiglia.»

 

A cura di Marco Del Corona, Corriere della Sera, 26.5.1994

QUALCUNO VOLO’ IN GROPPA AL CIGNO

[…]
Non ho avuto che obiettivi culturali e non di carriera Mi ha sempre interessato il passaggio storico tra Otto e Novecento espresso magnificamente da Mahler, come dicono in più, ma anche da Wagner e Strauss. E questi autori sono irrevocabilmente legati a Monaco e Bayreuth. E credo che l’Italia possa trovare le sue forze in questo repertorio.
 

LA SICILIA 9.9.91
di Carmelita Celi

SIGFRIDO, EROE DEL SAPERE

Wagner va senza dubbio realizzato con le scene ma i leitmotiv aprono una serie di panorami, anche ottici, impossibili da realizzare drammaturgicamente. La musica del compositore produce in molti casi una visualizzazione fantastica migliore di qualsiasi operazione registica.

Mentre Verdi piace a tutti perché si muove nell’ambito degli affetti, la composizione di Wagner, che affronta i problemi della conoscenza, richiede un retroterra culturale, sia per gli interpreti sia per gli ascoltatori.

L’eroe wagneriano, questa in sintesi l’interpretazione del maestro, compie un viaggio iniziatico verso la conoscenza. Come in tutte le mitologie, per tagliare il traguardo doveva superare alcune prove: la forgiatura della spada (<<simbolicamente significa la costituzione di un nuovo potere >>), l’uccisone del drago (<<presente in moltissime tradizioni, a cominciare da quella di San Giorgio, rappresenta la sconfitta delle forze terrestri che impediscono il passaggio a livelli più alti di sapere>>), la  comprensione del canto degli uccelli (<< il raggiungimento di conoscenze superiori>>), il combattimento con il dio Wotan travestito da Viandante (<< come Edipo Siegfried uccide, anche se solo simbolicamente, il padre>>) Sbaragliati tutti gli ostacoli, l’eroe giunge dall’amata Brunhilde e insieme all’amore conquista la conoscenza. Ma questa è strettamente legata alla paura (che Siegrfried prova per la prima volta) e quindi alla morte, preannunciata dal “tema della rinuncia” che echeggia nel momento del massimo trionfo.

È l’opera più difficile della trilogia (a proposito dell’interpretazione musicale) Il primo atto è una “fossa di leoni” per orchestra, cantanti, direttore. Ostacoli sia tecnici (rapidissimi cambiamenti di tempo, una scrittura vocale quasi impossibile), sia di linguaggio. Il terzo atto, composto 12 anni dopo i primi due, ha un’orchestrazione più ricca e contiene una miniera di innovazioni armoniche: un cromatismo ancora più estremo del Tristano: un’instabilità tonale che descrive la dissoluzione dell’incosciente sicurezza del protagonista.

Don Giovanni un’opera incentrata sulla nevrosi di perdere qualcosa, per esempio l’identità, con quegli scambi di persona tra il protagonista e Leporello. Un fenomeno oggi molto evidente, ma sempre esistito.

Il mito è tutto, è la memoria dell’uomo.

 

da Il Messaggero 16 maggio 1990

di Luigi Pasquinelli.

Sinopoli, vita con Wagner

“Perché sto all’estero? In Italia oggi purtroppo si lavora male.”

[…]

A Venezia invece, quello del Tannhauser è stato il primo spartito di un’opera wagneriana che ho comprato, quando ero giovinetto, da un rigattiere… Avevo sedici anni! Dietro a San Marco, trovai questo spartito usato. Amai subito talmente la musica di Wagner, da acquistare poco dopo anche la partitura del Tristano; e da non comperare, fino ai ventotto anni, nient’altro che opere tedesche.

Dopo di che tutto è seguito come da ragazzo non avrei mai osato sperare neppure nei miei sogni più sfacciati.

Per alcuni è necessario essere italiani per poter dirigere Verdi come si deve, e ugualmente essere nati al di là delle Alpi per comprendere Wagner. Ma contano di più i legami culturali. Io ho una struttura mentale doppia: una legata al Sud dell’Italia, alla sua corrente umanistica; l’altra alle influenze mitteleuropee ereditate da mia madre, che era veneziana. A queste devo forse il mio amore per Wagner.

E’ vero che una volta diretto Wagner non si dirige più nulla allo stesso modo?

Wagner è pericoloso. Ad esempio rischia di essere più affascinante leggerlo che dirigerlo: la seconda esperienza da enormi soddisfazioni (il suono dell’orchestra wagneriana è unico); ma la prima fa scoprire cose ancora più meravigliose. Il valore drammaturgico dei suoi celebri “leitmotiv”, ad esempio: usati sempre con una pertinenza scenica assoluta, messi in contatto fra loro variano continuamente (proprio come farebbero degli autentici “personaggi”) creando così dei giochi di prospettive irresistibili. Certo: la mia stessa concezione del “Tannhauser”, dal ’85 a questa incisione, è un po’ cambiata. Più distesa, più lirica (e in questo c’entra anche la scelta di un tenore come Domingo), meno legata all’articolazione ritmica. Diciamo quindi che, una volta diretto Wagner, neppure Wagner può più essere diretto come prima.

In questo senso deve orientarsi anche la sua scelta di eseguire le varie fasi del Ring a Roma in forma di concerto (prossimamente farà Sigfrido)

Precisamente. Quella di Roma è l’occasione per un’insolita lettura “al rallentatore”: fa intuire cose che – col peso e la distrazione della messinscena- rischierebbero di scomparire. È pur vero che la musica di Wagner necessita assolutamente della messinscena: per me, ad esempio, sarebbe possibile registrare un’opera di Verdi senza averla prima fatta in teatro, ma con Wagner no.

 

Il Giornale

1 novembre 1989

di Paolo Scotti.

 

Parsifal, poi… tutto Wagner

[…]

Maestro Sinopoli, c’è chi ha parlato di Parsifal sperimentale, quasi laboratoriale per la scelta della forma da concerto?

Diciamo che io non l’ho pensata come una versione alternativa alla messa in scena, bensì come un procedimento utile che ho voluto legare alla tecnica del leitmotiv wagneriano: l’intento era quello di concentrare l’ascolto di chi riceve, per consentirgli di analizzare le interrelazioni fra i leitmotiv. In questo caso, essi funzionano come veri e propri relais tra i vari livelli di coscienza, ed è questo – assai più del semplice aspetto variazionistico – che mi interessava. […]

Questo, con la messa in scena, non è possibile?

Nella messa in scena la comunicazione fra i leitmotiv è definita dal regista in maniera visiva “optische” come dicono spregiativamente i tedeschi. Un ascolto può essere più ricco senza scene.

La sua carriera discografica è coincisa con l’avvento del cd, cosa pensa del cd?

Il cd riproduce il suono in modo numerico: più che il suono, è il “rumore” del suono. Ciò significa una sua immobilizzazione e l’obbligo per l’esecutore ad una fedeltà assoluta, soprattutto con la tecnica stereo-digitale prediletta dalla DGG. Una bella responsabilità.

E l’attività di compositore?

Non l’ho lasciata. Sto cercando di concentrarmi per la stesura di quattro lieder su testi del poeta austriaco Georg Trakl.

da Il Gazzettino 20 maggio 1989
di Roberto Pugliese.