Nel tempio di Bayreuth, Giuseppe Sinopoli affronterà da domani le alchimie sonore dell”Anello del Nibelungo’. È il primo italiano nei 124 anni di storia del Festival cui sia stata affidata la monumentale ‘Tetralogia’: una ‘cavalcata’ di 15 ore. Un grande onore, trattandosi del ‘Ring’ che apre il nuovo millennio. Una sfida che, da intellettuale bulimico (mentre era al conservatorio è diventato medico-psichiatra, e ha poi studiato filosofia e archeologia) e cosmopolita (ha vissuto tra Austria e Germania quanto in Italia), affronta con un pensiero fisso: riflettere e far riflettere sull’eclissi del mito, la memoria perduta, la solitudine dell’uomo e il dramma del potere. Temi nei quali si è rispecchiato nelle settimane di prove e che – dice, svelando certe sue ansie – «potrebbero aiutarci a uscire dall’incoscienza che ci uccide un poco ogni giorno, svuotati dalla globalizzazione: una dittatura che omologa il mondo, verso un basso profilo». Per cui il rapporto sonno-sogno-conoscenza che innerva e scandisce l’opera wagneriana gli sembra quasi un itinerario pedagogico, da ripetere. Ma non è velleitario pensare che il suono di quelle note possa risvegliare un’Europa intorpidita, dove identità e radici sembrano a rischio? Wagner l’antidoto contro la globalizzazione, un «dominio» anonimo e invisibile quanto l’orchestra di Bayreuth? «Siamo in una fase di lutto della memoria, e i lutti vanno elaborati chiamando a raccolta le risorse culturali che si posseggono», spiega il maestro. E Wagner «è una grossa risorsa, specie oggi, dato che all’eliminazione delle identità di gruppo corrisponde il risveglio di super-identità dal carattere aggressivo-emozionale». Ha in testa il caso Haider, Sinopoli, con i suoi «rigurgiti volgari di sentimenti, pericolosi perché rischiano di avere brutti riverberi anche nella cultura»: un fenomeno che non dovrebbe comunque contemplare risposte emozionali, perché «ha una base molto diversa dai nazionalismi di fine Ottocento, che s’incardinavano su una colonna ideologica forte e su un altrettanto robusta colonna economico-finanziaria». Il leader carinziano non meriterebbe dunque tutte le inquietudini che suscita, perché «dietro di lui c’ è un vuoto di pensiero» e del resto la stessa Vienna «non ha un potere economico o militare tale da preoccupare». Ma non era forse «vuoto di pensiero» pure il nazismo, che tentò di utilizzare proprio Wagner? «Per capire quell’operazione, bisogna andare al Wagner che si ripresenta in questo Paese nel 1876, al termine di un lungo esilio e dopo esser stato sulle barricate con Bakunin contro il sistema dei prìncipi tedeschi. Rientra, e all’inaugurazione di questo santuario trova Guglielmo I, la persona che aveva combattuto. Per far nascere il ‘progetto di Bayreuth’, un sogno sociale che il musicista aveva condiviso con Nietzsche, ha dovuto venire a patti con il liberalismo manageriale tedesco. Per cui se quando partì era Sigfrido, cioè l’antinomia dello Stato borghese, ora che torna è Wotan, è lui stesso un principe, uno che affronta il futuro come se le idealità fossero fallite e non restasse altro che rifugiarsi in un’ufficialità appunto borghese: una svolta che rientra nell’ opportunismo che purtroppo caratterizza la sua personalità, con il bisogno di riconoscimenti, potere, danaro. A questo punto avviene il distacco con Nietzsche, che parla di arte malata e lo accusa d’ essere un istrione, un genio scenico che schiaccia e allaga la coscienza con l’enorme forza del gesto. C’è del vero, in quel giudizio, e qui io colloco il limite e il pericolo dell’opera wagneriana: quando, in certi casi, alla tragicità del gesto non corrisponde la tragicità del pensiero. Su questa faglia, su questa fessura, è stato possibile al nazismo usare Wagner, perché il nazismo non è tragicità di pensiero, ma tragicità gestuale, è un palazzo con le pareti di carta e vuoto dentro, una sorta di super-apparizione del gesto in cui il pensiero non esiste. Naturalmente il pensiero tragico in lui esiste, e va connesso alla tragicità nel senso greco, del pensiero che sonda la sofferenza, la difficoltà a esistere, il male che porta dolore e perdita». Insomma: se si crede all’innocenza dell’arte, Wagner è al di là del bene e del male, al di là di destra e sinistra. Tuttavia ha senso reclutarlo a testimonial contro la rivoluzione in corso? Si può attribuirgli una simile responsabilità? «Il suo è un caso tipico in cui la musica non esaurisce il proprio compito nell’espressività: pone anche problemi di gnosi, di conoscenza che si allarga alle questioni politico-sociali. Ci induce alla coscienza del vuoto e, proprio nella ‘Tetralogia’, ci mette dinanzi alla tomba del mito, il che oggi è già un’autoterapia». E l’ultimo mito del Novecento è stato per Sinopoli il comunismo: «Nacque come estremo tentativo d’innalzare l’uomo a una grande dignità ed ebbe una stagione affascinante nell’elaborazione che ne fece Ernst Bloch, con i concetti di utopia e speranza. Era il solo modo per superare la pietrificazione del potere dello Stato, ma tutto è finito come sappiamo: quell’ idea di un umanesimo marxista ha subito colpi drammatici, è stata manipolata e malmenata, Bloch buttato fuori dal suo Paese, il comunismo defunto». Dopo è venuta la tabula rasa nella quale beatamente galleggiamo, in una «vacanza dello spirito» che turba il maestro: non sapendo più cosa eravamo, non riusciamo neanche a immaginare cosa diventeremo. Ora, poiché lui ama ripetere che gli interessano «i periodi di crisi che racchiudono la fine di qualcosa e già contengono quel che verrà», che cosa vede nel nostro orizzonte? «La paura, una paura planetaria. Come spiegava Nietzsche, è il sentimento fondamentale dell’uomo, che se ne difendeva attraverso la scienza. Adesso, poiché le ideologie sono annichilite e la scienza è irraggiungibile, protetta nelle sue torri d’avorio, siamo dominati dall’angoscia, e lo dimostra l’uso sempre più massiccio di psicofarmaci. Ma ci interessa vivere in un mondo sotto narcosi? Da dove crediamo che abbiano origine certe sgangheratezze del New Age o certi nazionalismi beceri e aggressivi? Da questa paura per cui tutti si sentono aggrediti: provi a guardare un passante in faccia a New York e osservi come reagisce». Eppure, nonostante il disagio mentale di massa e le slogature culturali, la globalizzazione viene spacciata come un’età dell’oro. «Sì, la fanno apparire come un fenomeno di salvazione, missionario, che distribuisce benessere con il sistema dei vasi comunicanti», s’infervora Sinopoli. «Invece è un rullo compressore di identità e memorie. Un potere opaco e indistinguibile, che demoralizza l’uomo e non riconosce alle differenze il diritto di esistere. Teniamoci caro Wagner, ascoltiamo la sua musica e riflettiamo sul pensiero che c’è dentro, perché un po’ ci immunizza contro tutto questo».
A cura di Marzio Breda, Corriere della Sera, 25.7.2000