Verdi Giuseppe

(1813-1901)

Per alcuni è necessario essere italiani per poter dirigere Verdi come si deve, e ugualmente essere nati al di là delle Alpi per comprendere Wagner.

Mi sento profondamente italiano, per me ha un grande peso anche Verdi: energia mediterranea che rimanda a modelli primordiali, violenza espressiva unita a una semplicità musicale.

Giuseppe Sinopoli su Verdi – leggi di più…

Sinopoli su Verdi

Per alcuni è necessario essere italiani per poter dirigere Verdi come si deve, e ugualmente essere nati al di là delle Alpi per comprendere Wagner. Ma contano di più i legami culturali. Io ho una struttura mentale doppia: una legata al Sud dell’Italia, alla sua corrente umanistica; l’altra alle influenze mitteleuropee ereditate da mia madre, che era veneziana. A queste devo forse il mio amore per Wagner.1

Mentre Verdi piace a tutti perché si muove nell’ambito degli affetti, la composizione di Wagner, che affronta i problemi della conoscenza, richiede un retroterra culturale, sia per gli interpreti sia per gli ascoltatori.2

Il nome di Verdi è fondamentale per un teatro d’opera.3

In quel momento impegnarmi su il giovane Verdi (a Berlino nel 1980 con Macbeth) era soprattutto necessità di chiarezza cioè impegnarsi con un materiale ridotto al minimo e invece con una violentissima carica semantica.
Il problema in cui mi trovavo io come compositore era quello di gestire una valanga enorme di materiali con tecniche complicatissime e polivalenti che potevano abbagliare e cadere provvisoriamente in allucinazioni tonali. Diciamo da questo gioco complicatissimo e carismatico di tecniche compositive per poi giungere ad una informazione semantica che si faceva grande fatica a tirar fuori ed esprimere, concentrarsi su un autore come Verdi in cui i segnali sono minimi, è arte povera. Però l’informazione è enorme e violentissima, quasi una arcaicità degli affetti.
Non c’è una ricerca del progresso storico della lingua in Verdi, quanto credo invece che sia una indagine sulla tipologia degli affetti e soprattutto sull’esternazione degli affetti che porti ad uno sviluppo e a una elaborazione della forma. La funzione, per esempio, del declamato nel Macbeth è già molto più importante che non di quanto lo possa essere nelle sue opere successive.4

In Verdi trovo una stratificazione di diversi elementi, politici, sociali, affettivi, e tutto connesso con un linguaggio musicale assolutamente pertinente a questi termini. E infatti nei miei progetti futuri ci sono altre opere di Verdi, Macbeth e Simon Boccanegra. Questa Aida è comunque assi diversa da quelle cui siamo abituati, è un’Aida triste, velata, e allo stesso tempo straziante, delirante. Lo stesso trionfo è visto piuttosto come un precipizio in cui vengono coinvolti i personaggi con i loro drammi.5

Nutro un grande amore ed un grande interesse per l’opera giovanile di Verdi. Non dirigerò però sempre le opere degli «anni di galera» di Verdi, questo è soltanto un periodo della mia vita. All’opera dedico la metà del mio lavoro di direttore: ogni anno programmo trenta serate di concerto e trenta serate d’opera. Per il melodramma ho dei progetti precisi, sistematici. Innanzitutto, vi è al giorno d’oggi un marcato interesse alle riscoperte, alle riesumazioni in genere, ad un’edizione me nota di Tannhauser, alla prima stesura di Buttefly o del Faust, interesse che coinvolge la musicologia e lo studio delle fonti. Quanto al primo Verdi, c’è da rivisitare certe opere che per varie ragioni sono rimaste in ombra. Almeno cinque opere mi interessano specialmente: Nabucco, Ernani, Attila, Macbeth, Luisa Miller, opere che ritengo più importanti di altre scritte in seguito. In Nabucco, come in Attila, si individuano procedimenti armonici e ritmici del tutto semplici che vengono impiegati in modo radicale e non retorico. Nelle arie del << primo Verdi>> viene illustrato quello che già era stato enunciato nel recitativo. In queste opere la mia interpretazione punta a dar evidenza a quello che sovente è stato giudicato negativamente, a dar evidenza all’accompagnamento nella sua funzione drammatica e strutturale. Nel giovane Verdi vi sono mezzi espressivi semplici e radicali, senza grande retorica, percorsi da una tensione inaudita, quasi fisica. Questo per me è molto moderno. Con eccezione di Mozart, non vi è stato nessun altro compositore come Verdi che abbia usato il materiale in modo tanto funzionale, una materia limitato, da trattare in modo moderno. Quando provo con l’orchestra, dico: «secco come Stravinsky». E sempre sostengo anche un’altra cosa: «non si deve fare del accompagnamento, questa non è musica d’accompagnamento. II dramma vive in orchestra, non sulla Scena».

1 SINOPOLI VITA CON WAGNER, Il Giornale, 1 novembre 1989, di Paolo Scotti.
2 SIGFRIDO, EROE DEL SAPERE , Il Messaggero 16 Maggio 1990 di Luigi Pasquinelli.
3 NON DIMENTICO MESSINA, di Franco Cicero.
4 SINOPOLI, I TRE CUORI DELL’UOMO, documentario Rai. Intervista rilasciata a Carmelo Di Gennaro
5 ANCHE UN COMPOSITORE D’AVANGUARDIA PUÒ SCEGLIERE LA MUSICA DI VERDI, 30 gennaio 1978, La Repubblica

Sinopoli: la mia Elektra al sangue

“Strauss mi ricorda la pittura di Klimt, ma ho lasciato sbizzarrire Ronconi

Da una parte, i libri di egittologia, sui quali Giuseppe Sinopoli studia dalle 7.30 alle 9.30 («una meditazione da monaco»): come a simboleggiare lo spazio intimo e profondo dove nasce l’approccio alla partitura di Strauss, che il direttore d’orchestra porterà dopodomani alla Scala. Dall’altra, le invenzioni di Luca Ronconi e di Gae Aulenti, pilastri neri quasi di catrame, piastrelle insanguinate della macelleria, quarti di carne: cioè la macchina del teatro, la fucina dove la partitura diventa opera, spettacolo.

I registi sono spesso la croce dei direttori. Sinopoli, che debutta in un’opera alla Scala, spiega: «Ho bisogno di registi con i quali ci si intenda in due parole. Ma non bisogna essere troppo rigidi. La musica, il corpo, lo spazio scenico hanno linguaggi diversi, e non è detto che chi sa gestire il suono sia padrone anche del resto.» […]

Sono stati giorni di lavoro severo, quelli di Sinopoli con l’orchestra scaligera, che oggi culminano con la prova generale: «Ha mostrato – dice – una serietà e una qualità d’impegno notevoli. La musica esige un serio lavoro artigianale.» La concezione estetica viene dopo: «Qui interviene la cultura personale. Un suono, un timbro, sono legati a suggestioni psicologiche, al contesto storico. Non si possono ignorare, a proposito di Strauss, la pittura di Klimt e Schiele, l’impressionismo. E conoscendo la metrica greca, scopro ritmi classici in questa partitura di danza che è ‘Elektra’.»

Sinopoli predilige il repertorio tra ‘800 e ‘900: «Una scelta nata da un problema culturale che per me è anche esistenziale. La crisi, il trapasso del secolo. E la ricerca degli antecedenti, fino a Beethoven. Indagherò più tardi il ‘700. Nella mia ricerca rientrano anche Elgar e Puccini, non un verista ma un tipico prodotto della crisi della borghesia italiana. Mi sento profondamente italiano, per me ha un grande peso anche Verdi: energia mediterranea che rimanda a modelli primordiali, violenza espressiva unita a una semplicità musicale. I miei progetti sono Verdi, Puccini, Wagner, Strauss.» Strauss: «È l’autore che più mi ha dato da pensare.» Perché – spiega Sinopoli – bisogna scoprirne gli elementi innovativi, ciò che è solo apparentemente conservazione. Non ama le etichette, il maestro, ma per Strauss propone cautamente l’aggettivo ‘postmoderno’, tra virgolette. Affronterà la ‘Donna senz’ombra’, «poi spero di dedicargli un saggio».

Dal ’92 Sinopoli guida la Staatskapelle di Dresda: il contratto scade nel ’97 ma già la programmazione si spinge oltre. Un direttore e un’orchestra: «Il segreto del legame sta nell’onestà. Se c’è onestà culturale e di rapporti sociali, allora s’instaura un vero scambio. Altrimenti si lavora in una rigidità che si riflette nelle esecuzioni. A Dresda il rapporto è di onestà, bellissimo.»

La situazione politica italiana gli strappa una smorfia sconsolata, quella tedesca parole pesanti: «La riunificazione non è ancora avvenuta. Nè psicologicamente nè economicamente. E nella cultura le cose sono difficili.» A Berlino la musica è sostenuta generosamente, «a Dresda invece lavoriamo in apnea. I professori dell’orchestra prendono il 20% in meno che all’Ovest, tra mille problemi pratici, una prospettiva che allontana i musicisti occidentali. Ho proposto a chi viene a dirigere la Staatskapelle, per esempio Levine, Ozawa o Barenboim, di ridursi il cachet del 40%, come me. E se voglio fare un’opera devo chiedere la carità ai cantanti, che altrove guadagnerebbero il doppio». Un’idea anche per l’Italia? «Anni fa, a Santa Cecilia, proposi di calmierare gli ingaggi. Arriveremo ad esserci costretti tutti. Nessuno sa cosa significa dirigere un’opera lontano da casa, parlare coi figli al telefono… Io prenderei un decimo rispetto a ora, pur di lavorare vicino alla famiglia.»

 

A cura di Marco Del Corona, Corriere della Sera, 26.5.1994

SINOPOLI & VERDI

Carriera fulminante, più di Muti e Abbado… com’è avvenuto?

Ho praticamente esordito a Venezia nel 77 con Aida, anche se la mia formazione è cominciata a Vienna nel ’71, quando mi dedicavo ancora prevalentemente alla composizione.

Tutto sommato penso che la mia ascesa sia stata rapida perché è cominciata tardi, quando il mio approccio con la musica si era sviluppato su molti piano oltre quello direttoriale; è quindi un rapporto cresciuto solidamente, che quando si è esplicato, nella direzione mi ha trovato preparato. Da un lato ho dovuto imparare la tecnica direttoriale a un’età in cui altri l’avevano già appresa, ma dall’altro avevo già esperienze che altri hanno potuto maturate solo in tempi successivi.

Poi ho concentrato gli sforzi solo su alcuni settori, nell’opera ad esempio su Verdi, Puccini ed ora Wagner, approfondendoli però con consapevolezza.

Cosa vuol dire oggi essere una stella?

Avere grandi responsabilità, perché il pubblico si aspetta molto da noi. Non basta avere un nome, fare dei dischi: bisogna sempre dare il massimo di sé, e anche avere il coraggio di fare scelte culturali che possano esaudire le aspettative delle persone.

Ti senti a tuo agio nelle sale d’incisione.

Al punto che il primo corno della Filarmonica di New York tempo fa mi disse che in registrazione io diventavo ancora più emozionale. Gli risposi che era vero perché lì eravamo solo musicisti, liberi da qualsiasi condizionamento esterno, e quindi potevamo fare musica in assoluto, cioè con impegno assoluto.

Verdi, Requiem: ho notato nelle prove che hai leggermente sfoltito l’orchestra.

Si, perché la ritengo, tranne in alcuni momenti di eccitazione, un’opera molto intima, interiorizzata, che riflette qualcosa dell’Aida. È un lavoro un po’ sfingeo, che richiede molta maturazione e calma interiore.

 

da Il Gazzettino del 31 luglio 1986

 

AIDA COL BATTICUORE

Lei, Sinopoli, è stato finora un direttore di musica che di avanguardia. Che cosa lo ha spinto a dirigere addirittura un feticcio della lirica come Aida?

Nulla di strano. In questi ultimi tempi ho preso le mie distanze dall’avanguardia storica degli anni Cinquanta. Ma già a Vienna, con Swarosky, avevo studiato a fondo l’opera lirica.

Si dice che lei tenti un’interpretazione intimistica dell’Aida?

Cosa vuol dire intimistica? Né piano, né fiacco, né debole. Vuol dire centrare tutto sul dramma dei personaggi. Questa è l’unica mia assonanza con questo termine. Intendo che anche i momenti corali devono essere visti in connessione col dramma dei personaggi. Un rapporto intimistico si può ottenere anche urlando.

La sua opinione, franca, sull’orchestra della Fenice? Dimentichi di essere veneziano..?

L’orchestra della Fenice riesce a dare, in alcuni momenti, cose che soltanto le grandi orchestre sanno dare. È un’orchestra appassionata, con tutti i pro e i contro che comporta questo aggettivo. Sono stato chiaro?

 

di Paolo Rizzi

IL GAZZETTINO giovedì 26 gennaio 1978