Autoritratto scritto per il “Musiktage” del Festival di Donaueschingen, 1975

giuseppe_sinopoli_composizioni

Veneziano di nascita, lego la mia origine a quella parte della Sicilia che sta ad oriente e che sotterranei percorsi uniscono a quell’antichissima cultura che fu la società dei vecchi maestri greci che da Anassimandro corre fino a Empedocle.

Presenza attuale di incidenze lontane che con Nietzsche ritrovano chiarificazioni indiscutibili; un riferimento: Empedocle.

“…tutta la materia inorganica è nata dalla materia organica, è una materia organica morta. Il cadavere e l’uomo”.
“…il pensiero… un pessimismo o un ottimismo d’artista”.
“…Sfiducia profonda di fronte alla realtà.”

A Venezia devo i miei dieci anni di formazione, da quindici a venticinque, di ritorno dalla Sicilia dove si svolse la mia infanzia (da cinque a quindici anni).
In Sicilia gli studi musicali cominciarono privatamente (Organo e Armonia) a Venezia dopo un breve periodo alla classe di Composizione al Conservatorio Benedetto Marcello continuarono autodidatticamente a causa della totale inadeguatezza degli studi musicali presso i Conservatori di Stato.
Importante in quel periodo fu l’amicizia e gli indirizzi di studio suggeritimi da Bruno Maderna, fu tramite lui che venni in contatto con un fondamentale patrimonio culturale presente alla Biblioteca Marciana di Venezia che dai Fiamminghi corre alle varie Scuole Veneziane.

Durante il periodo di studi liceali l’interesse per la musica si univa ad uno studio intensivo del pensiero filosofico aristotelico, che notevole influenza avrebbe dovuto avere in seguito sulla mia formazione, e dell’idealismo tedesco.
Le tre critiche di Kant, Fenomenologia dello Spirito e l’estetica hegeliana furono i miei libri più cari fino all’età di 19 anni.

L’inizio degli studi di medicina fecero virare gli interessi filosofici verso la cosiddetta filosofia della scienza che lasciò in seguito ben poche tracce. Nulla di strano se allora gli interessi musicali erano rivolti verso la scuola di Vienna, non tanto osservata nelle sue implicazioni espressionistiche, quanto piuttosto nelle tensioni analitiche della sua grammatica.
A decidere definitivamente il mio futuro di musicista fu lo studio dell’opera weberniana. Quello che allora di questo autore mi affascinava era la capacità di sublimare in simmetrie prismatiche intuizioni per nulla astratte di ascendenza liederistica.
Un’estrema frattura fra la forma ed il contenuto iniziale.
La partigianeria dell’avanguardia anni ‘50, credo abbia eccessivamente semplificato il problema nel caso Webern: oggi non mi interessa tanto il serialismo weberniano, che tanti artigiani dilettanti ha partorito negli ultimi venti anni, quanto il mantenimento decisivo del senso di una tradizione musicale, distrutto dagli accademici delle varie scuole nazionaliste europee.
Le “Variationen fur Orchester” op.30 sono in tal senso decisive.
Entrai in contatto con la “Nuova musica” grazie ad un caro amico veneziano, il critico Mario Messinis, al cui interessamento devo la mia prima importante esecuzione alla Biennale di Venezia nel 71.

I “mostri sacri” di Darmstadt diventarono allora le mie acquasantiere.

Boulez, Stockhausen e Kagel mi affascinavano anche se per vie diverse.
Cage e gli americani non mi interessarono mai. Una breve passione per Feldmann nacque da un errore: leggevo e ascoltavo in Feldmann quello che lui stesso era lontanissimo dall’immaginare: una parabola sorprendente che riconduceva la nuova musica a Webern da cui era partita; Feldmann invece viaggiava tranquillo verso le melodiette da “The Viola in my life”.

Gli anni ‘67 e ‘68 furono dedicati allo studio delle opere di Stockhausen da Zeitmasse a Momente.
Il primo pellegrinaggio a Darmstadt fu nel ‘68 e l’impressione fu decisamente deludente.
Tranne il corso di Maderna che mi dette l’opportunità di entrare nei labirinti del “Marteau sans Maitre” il resto dell’“avanguardia” portava i segni più chiari di una irrecuperabile decadenza, quella almeno che fino ad oggi permane.
Stockhausen ed i suoi “misticismi superrazionali” suonavano allora, come oggi, clownerie tristissime.
Di ritorno da Darmstadt mi immersi definitivamente nello studio di Boulez, che ancor oggi considero l’unico decisivo autore apparso dopo Webern.
Come in quest’ultimo c’è in Boulez la nostalgia per un passato recente reso incandescente sotto gli sguardi di una intelligenza assiomatica.

Il 70 fu l’anno del mio incontro con Donatoni.
Posso considerare indirettamente Donatoni come il mio unico Maestro.
Non ricevetti infatti nessuna lezione di composizione in senso stretto, ma molto di più. Donatoni fece sì che io chiarificassi a me stesso delle questioni fondamentali, mi costrinse a delle scelte, determinò la mia fisionomia. L’esperienza affascinante si chiarificava progressivamente con l’allontanamento dalla sua ideologia. L’apprendistato con Donatoni fu davvero singolare: mi insegnò a definire me stesso e questo fino al punto di rinnegare totalmente la sua estetica.

Di questo periodo furono le composizioni che da “Opus Daleth” vanno sino alla “Symphonie Imaginaire”. (1972)

Dopo un breve soggiorno a Liegi nel Novembre 72 presso il “Centre de Recherches de La Walonie” con il progetto di continuare le ricerche sui problemi connessi con la percezione sonora e la psiche, già affrontati nel periodo di studi universitario, fissai la mia dimora a Vienna con l’intenzione di studiare la direzione d’orchestra e di approfondire i miei studi sugli autori viennesi da Mahler a Webern.
Fui iscritto come allievo ordinario ai corsi di Direzione d’orchestra tenuti all’Accademia di Vienna da Hans Swaroski, che dovetti in seguito sospendere a causa dei nuovi impegni di docente di musica elettronica e contemporanea al Conservatorio di Venezia.
Avevo in precedenza seguito i corsi di direzione d’orchestra tenuti da Franco Ferrara all’Accademia Chigiana di Siena dove come collaboratore al corso di Donatoni avevo tenuto dei seminari di analisi di partiture proprie e dei Quintetti di Mozart.

Con i “Souvenirs à la Memoire” inizia una nuova fase nella mia prassi compositiva. Se le precedenti partiture possono essere riferite alla volontà di definire i limiti estremi di uno strutturalismo ferreo ( Symphonie imaginaire – Klaviersonate), dai “Souvenirs” in poi l’esperienza si capovolge: una posizione alternativa rispetto allo strutturalismo degli anni cinquanta mi imponeva di lasciare che il pensiero, nella sua componente strettamente logica, giocasse il proprio destino senza remore.
Il capovolgimento del sommamente razionale nel sommamente irrazionale realizzato da un rispecchiamento spiraliforme del pensiero nelle ascendenze più remote delle sue costituenti.

I “Souvenirs à la memoire” portano il segno di questa ricerca e il definirsi di segni lontanissimi connessi con tipologie emerse quasi psicoanaliticamente.

Si delinea da questa partitura una scelta, per il momento, senza concessioni: il rifiuto di una concezione progressista dell’arte. Se il consumismo sperimentale, allineato borghesemente, anche se le etichette sono rivoluzionarie, con il sistema squallido dell’ “ultima trovata” per smerciare un prodotto, presuppone lo stesso rapporto con il pubblico di quello auspicato dalla pubblicità televisiva, il progressivo inembricarsi dei procedimenti di elaborazione del cosi detto “materiale sonoro” rivela la frustrazione di un anelito scientista portato avanti con trionfante dilettantismo.
Perché continuare a elaborare applicando formulette da abecedario ginnasiale ciò che si è neppure in grado di controllare fenomenologicamente ? già ! il problema della frattura tra scrittura e fenomeno sonoro !!!! e con questa teoria goliardica si mettono a posto tutti i rimorsi di fare i musicisti senza esserlo !!!!

Le teorie non sono mai state a servizio dell’impotenza come in questi ultimi trenta anni.

Giuseppe Sinopoli, 1975