SINOPOLI & VERDI

Carriera fulminante, più di Muti e Abbado… com’è avvenuto?

Ho praticamente esordito a Venezia nel 77 con Aida, anche se la mia formazione è cominciata a Vienna nel ’71, quando mi dedicavo ancora prevalentemente alla composizione.

Tutto sommato penso che la mia ascesa sia stata rapida perché è cominciata tardi, quando il mio approccio con la musica si era sviluppato su molti piano oltre quello direttoriale; è quindi un rapporto cresciuto solidamente, che quando si è esplicato, nella direzione mi ha trovato preparato. Da un lato ho dovuto imparare la tecnica direttoriale a un’età in cui altri l’avevano già appresa, ma dall’altro avevo già esperienze che altri hanno potuto maturate solo in tempi successivi.

Poi ho concentrato gli sforzi solo su alcuni settori, nell’opera ad esempio su Verdi, Puccini ed ora Wagner, approfondendoli però con consapevolezza.

Cosa vuol dire oggi essere una stella?

Avere grandi responsabilità, perché il pubblico si aspetta molto da noi. Non basta avere un nome, fare dei dischi: bisogna sempre dare il massimo di sé, e anche avere il coraggio di fare scelte culturali che possano esaudire le aspettative delle persone.

Ti senti a tuo agio nelle sale d’incisione.

Al punto che il primo corno della Filarmonica di New York tempo fa mi disse che in registrazione io diventavo ancora più emozionale. Gli risposi che era vero perché lì eravamo solo musicisti, liberi da qualsiasi condizionamento esterno, e quindi potevamo fare musica in assoluto, cioè con impegno assoluto.

Verdi, Requiem: ho notato nelle prove che hai leggermente sfoltito l’orchestra.

Si, perché la ritengo, tranne in alcuni momenti di eccitazione, un’opera molto intima, interiorizzata, che riflette qualcosa dell’Aida. È un lavoro un po’ sfingeo, che richiede molta maturazione e calma interiore.

 

da Il Gazzettino del 31 luglio 1986