Puccini Giacomo

(1858-1924)

nella Fanciulla del West Puccini non ha «fotografato» la vicenda in termini veristici ma l’ha analizzata nell’aspetto psico-dinamico nei momenti nevralgici, con un’orchestra mobilissima, un fraseggio sottile e raffinato, una cura straordinaria del timbro e anche del canto

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Sinopoli su Puccini

Qual’è il suo rapporto con i cantanti, come vede la loro concertazione?
Le voci non sono strumenti rigidi, vanno lavorate e incanalate conducendole in assoluta naturalezza alla « propria » lettura dell’opera. Bisogna sentire la « fisicità» del cantare e dell’organizzazione vocale. E poi, io non sono certo un direttore che stacca tempi metronomici artificiosi. Nell’opera del resto non vi è un tempo metronomico assoluto. Bisogna sentire il senso del canto e far « crescere » l’opera di intesa stretta con i cantanti e gli strumentisti.

Ha diretto anche Puccini, con quali intendimenti?
Sempre più mi convinco che Puccini nulla ha da spartire con il verismo, era un musicista europeo, aperto agli influssi della scuola francese del tardo Ottocento ed anche ai Viennesi del primo Novecento. Tali influssi sono stati assimilati nel suo originalissimo stile, sia sul piano armonico sia sul versante della tecnica di strumentazione. In particolare, nella Fanciulla del West Puccini non ha «fotografato» la vicenda in termini veristici ma l’ha analizzata nell’aspetto psico-dinamico nei momenti nevralgici, con un’orchestra mobilissima, un fraseggio sottile e raffinato, una cura straordinaria del timbro e anche del canto. Infine, vi è in quest’opera una componente «liberty», un gusto di «liberty italiano» che mi affascina, al punto che ritengo la Fanciulla se non la più bella almeno la più interessante opera di Puccini, assai più avanzata e moderna di Turandot.

Quali sono le musiche che vorrebbe dirigere in un futuro non troppo lontano?
Nel teatro verdiano, Rigoletto in cartellone per l’inaugurazione del Maggio fiorentino 1984. Ancora di Verdi Forza del destino. di Puccini Manon Lescaut, Bohème, Tosca (in programma al Met con Domingo); dal 1985 in poi, nel repertorio tedesco , Salome, Elettra, Olandese volante, Oberon. Nell’ambito sinfonico Schumann, Brahms, Bruckner. Mahler, Berg.

Perché in ordine cronologico?
Piuttosto e soprattutto in ordine logico. In questi autori mi interessa, in modo diverso per ciascuno, il rapporto sofferente con la forma, tra la forma e l’ispirazione, cioè il sogno.

tratto da “Il dramma vive in orchestra, non sulla scena”
Il mondo della musica
di Luigi Bellingardi
intervista rilasciata tra il 1982 e il maggio 1984.

Sinopoli: la mia Elektra al sangue

“Strauss mi ricorda la pittura di Klimt, ma ho lasciato sbizzarrire Ronconi

Da una parte, i libri di egittologia, sui quali Giuseppe Sinopoli studia dalle 7.30 alle 9.30 («una meditazione da monaco»): come a simboleggiare lo spazio intimo e profondo dove nasce l’approccio alla partitura di Strauss, che il direttore d’orchestra porterà dopodomani alla Scala. Dall’altra, le invenzioni di Luca Ronconi e di Gae Aulenti, pilastri neri quasi di catrame, piastrelle insanguinate della macelleria, quarti di carne: cioè la macchina del teatro, la fucina dove la partitura diventa opera, spettacolo.

I registi sono spesso la croce dei direttori. Sinopoli, che debutta in un’opera alla Scala, spiega: «Ho bisogno di registi con i quali ci si intenda in due parole. Ma non bisogna essere troppo rigidi. La musica, il corpo, lo spazio scenico hanno linguaggi diversi, e non è detto che chi sa gestire il suono sia padrone anche del resto.» […]

Sono stati giorni di lavoro severo, quelli di Sinopoli con l’orchestra scaligera, che oggi culminano con la prova generale: «Ha mostrato – dice – una serietà e una qualità d’impegno notevoli. La musica esige un serio lavoro artigianale.» La concezione estetica viene dopo: «Qui interviene la cultura personale. Un suono, un timbro, sono legati a suggestioni psicologiche, al contesto storico. Non si possono ignorare, a proposito di Strauss, la pittura di Klimt e Schiele, l’impressionismo. E conoscendo la metrica greca, scopro ritmi classici in questa partitura di danza che è ‘Elektra’.»

Sinopoli predilige il repertorio tra ‘800 e ‘900: «Una scelta nata da un problema culturale che per me è anche esistenziale. La crisi, il trapasso del secolo. E la ricerca degli antecedenti, fino a Beethoven. Indagherò più tardi il ‘700. Nella mia ricerca rientrano anche Elgar e Puccini, non un verista ma un tipico prodotto della crisi della borghesia italiana. Mi sento profondamente italiano, per me ha un grande peso anche Verdi: energia mediterranea che rimanda a modelli primordiali, violenza espressiva unita a una semplicità musicale. I miei progetti sono Verdi, Puccini, Wagner, Strauss.» Strauss: «È l’autore che più mi ha dato da pensare.» Perché – spiega Sinopoli – bisogna scoprirne gli elementi innovativi, ciò che è solo apparentemente conservazione. Non ama le etichette, il maestro, ma per Strauss propone cautamente l’aggettivo ‘postmoderno’, tra virgolette. Affronterà la ‘Donna senz’ombra’, «poi spero di dedicargli un saggio».

Dal ’92 Sinopoli guida la Staatskapelle di Dresda: il contratto scade nel ’97 ma già la programmazione si spinge oltre. Un direttore e un’orchestra: «Il segreto del legame sta nell’onestà. Se c’è onestà culturale e di rapporti sociali, allora s’instaura un vero scambio. Altrimenti si lavora in una rigidità che si riflette nelle esecuzioni. A Dresda il rapporto è di onestà, bellissimo.»

La situazione politica italiana gli strappa una smorfia sconsolata, quella tedesca parole pesanti: «La riunificazione non è ancora avvenuta. Nè psicologicamente nè economicamente. E nella cultura le cose sono difficili.» A Berlino la musica è sostenuta generosamente, «a Dresda invece lavoriamo in apnea. I professori dell’orchestra prendono il 20% in meno che all’Ovest, tra mille problemi pratici, una prospettiva che allontana i musicisti occidentali. Ho proposto a chi viene a dirigere la Staatskapelle, per esempio Levine, Ozawa o Barenboim, di ridursi il cachet del 40%, come me. E se voglio fare un’opera devo chiedere la carità ai cantanti, che altrove guadagnerebbero il doppio». Un’idea anche per l’Italia? «Anni fa, a Santa Cecilia, proposi di calmierare gli ingaggi. Arriveremo ad esserci costretti tutti. Nessuno sa cosa significa dirigere un’opera lontano da casa, parlare coi figli al telefono… Io prenderei un decimo rispetto a ora, pur di lavorare vicino alla famiglia.»

 

A cura di Marco Del Corona, Corriere della Sera, 26.5.1994