Strauss Richard

(1864-1949)

Il comportamento controllato minimalista quasi sorretto da una legge congelante, a “frìgore” si potrebbe dire, che Strauss applicava al suo modo di dirigere o che consigliava ai direttori d’orchestra, è qualcosa che ha a che fare più con un aspetto della sua psico-dinamica che non con l’aspetto espressivo della sua musica.

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Giuseppe Sinopoli spiega Richard Strauss

Il comportamento controllato minimalista quasi sorretto da una legge congelante, a “frìgore” si potrebbe dire, che Strauss applicava al suo modo di dirigere o che consigliava ai direttori d’orchestra, è qualcosa che ha a che fare più con un aspetto della sua psico-dinamica che non con l’aspetto espressivo della sua musica. Anche se l’espressione nell’opera di Strauss non è un’espressione tipicamente tardo romantica, ma è un’espressione in cui il tardo romanticismo viene sottoposto ad un allontanamento progressivo e quindi c’è un senso di perdita di un senso lontananza, un senso di Sehnsucht, di nostalgia che corrisponde, semmai, ad un primo romanticismo.
In effetti, quanto diceva Strauss a proposito della interpretazione di Salome, per esempio, di dirigerla come Mendelssohn, in questo apparente paradosso c’è una verità assoluta. Ultimamente io ho diretto la Salome a Dresda, sottoponendo tutta la partitura dell’orchestra, che seguiva affascinata questa operazione, a una rarefazione timbrica riportandola a Salome ad un aspetto direi quasi Jugendstil come se alcuni veleni della secessione viennese si fossero infiltrati in questa partitura. Il che rende il senso trasgressivo di Strauss ancora più evidente, e in questo senso, naturalmente, cerco di aggirare un po’ l’ingenua definizione di Adorno di considerare Strauss semplicemente come un conservatore.
Bisogna evitare, dirigendo Strauss o intrepretando Strauss, di cadere in una ovvietà che non serve a Strauss e non serve neanche all’epoca storica in cui Strauss ha vissuto, cioè una gestualità enfatica, una forzatura quasi muscolare della partitura. È quello che si fa spesso anche con Wagner, anche se Wagner ha natura e ha matrice completamente diversa rispetto a quella di Strauss.
Ritengo che il “romanticismo” di Strauss consista soprattutto nel avere a che fare con la tradizione, però nel senso di abbandonarla. In questo senso è romantico come è romantico ?Hasendorf?, cioè: abbandonare ciò che si ha amato. Se in effetti Strauss ha amato molto la tradizione, però la sua opera consiste in un allontanamento. Allora siamo in un romanticismo per dissolvenza.
Strauss va veramente allora diretto con una trasparenza assoluta e con un senso della perdita che, se in Mahler è gridato, in lui è accennato.
Se abbiamo parlato prima di un romanticismo per allontanamento, l’Arianne è veramente di questo processo l’esempio più radicale.
L’orchestra, è un’orchestra mozartiana, se si fa esclusione delle arpi, della celesta, dell’armonium, del pianoforte. Ed il senso più profondo, io trovo, dell’Arianne, è veramente l’allontanamento. Ma questo allontanamento succede facendo un riferimento, Hofmannsthal, alla tragedia attica, e se da una parte, anche nella corrispondenza tra Hofmann e Strauss, Strauss suggerisce di andarsi a guardare le arie italiane, soprattutto la Zerbinetta, e quindi riferimento più al teatro delle maschere o al teatro dell’improvvisa o poi alla commedia dell’arte, è un riferimento che nasce in ambito esclusivamente operistico, e quindi molto più legato a Strauss che non a Hofmannsthal, ritengo che invece il rapporto più forte con il teatro attico del V sec. soprattutto, lo segna Hofmannsthal.

In parole molto semplici: non si tratta tanto di un rapporto tra il genere della tragedia o il teatro rinascimentale e il teatro dell’improvvisa o il teatro delle maschere o il teatro della commedia dell’arte, questo in effetti c’è perché nel momento in cui ci sono le maschere c’è anche un riferimento a questo genere teatrale che nasce sulla gestualità, sull’eliminazione del testo scritto, quindi sul rapporto con il dialetto, quindi con il rapporto con il popolo, ma più che questo io trovo che in Hofmannsthal ci sia un riferimento al teatro attico e soprattutto al così detto dramma satiresco. Forse questa è una cosa che non è stata ancora ben notata, però in effetti possiamo dire che se per la tragedia è il momento in cui si piange intorno al destino tragico di un eroe appunto tragico, e se la commedia è il momento in cui si ride intorno ai destini comici di un eroe appunto comico, il dramma satiresco, di cui purtroppo però abbiamo pochissimi riferimenti testuali, e se non altro in modo veramente frammentario, il dramma satiresco era appunto un momento di alleggerimento che seguiva al ciclo delle tre tragedie, alleggerimento che consisteva nei lazzi dei satiri che attorniavano un eroe, appunto, tragico , quindi era una commissione se si vuole di genere.

In effetti Hofmannsthal conosceva bene questi argomenti e uno studio iconografico su Arianne mi ha portato a trovare una pelike nel British Museum in cui viene raffigurata Arianne dormiente attorniata da quattro satiri e poi da un Eros alato in riferimento alle quattro maschere, è evidente, non so se Hofmannsthal abbia visto questo vaso o, in ogni caso, il riferimento, anche se a posteriori, è in ogni caso ben preciso.

Pelike nel British Museum in cui viene raffigurata Arianne dormiente attorniata da quattro satiri e da un Eros alato
Pelike nel British Museum in cui viene raffigurata Arianne dormiente attorniata da quattro satiri e da un Eros alato

Sta di fatto quindi che la tragedia di Arianne viene attorniata da un modo che gli è estraneo ma che non fa altro che sottolineare questo isolamento.
Il problema di Arianne è il problema della negazione della morte. La trasformazione di Arianne, la trasformazione che essa vuole assolutamente ottenere, che poi non è altro che la trasformazione, la metamorfosi, l’afferwandung come diceva Hofmannsthal, a cui tende anche il compositore nel prologo, e il duetto tra il compositore e Zerbinetta nel prologo si continua poi nel monologo di Zerbinetta davanti alla principessa Arianne nell’opera, diciamo che la trasformazione che è in corso è una trasformazione che supera la morte nel momento appunto in cui Arianne non incontra Hermes, il dio psicopompo che porta le anime nell’aldilà, ma incontra Dioniso.
Se Strauss amasse di più il settecento o il mondo greco, è una questione apparentemente semplice però forse un po’ più complessa di quanto sembra. Cioè se in effetti Strauss non aveva la dimensione culturale per conoscere bene il mondo greco, e il mondo greco diveniva così trasferito, se si vuole, da Hofmannsthal, e il mondo greco in Hofmannsthal subisce una accelerazione metropolizzante, cioè è il mondo greco trasportato nella metropoli viennese, quindi sottoposto a tutta una serie di veleni psicodinamici e che avevano una forza attrattiva nei meccanismi inconsci (Elettra in questo senso è una esempio tipico), non credo quindi che la passione per il mondo greco in Strauss fosse una passione diretta, ma fosse una passione mediata, recependo di questa passione l’aspetto più teatrale se si vuole.
Invece del settecento aveva una conoscenza diretta e quasi simpatetica: Strauss conosceva benissimo Mozart, suggeriva che la base del repertorio di un teatro ideale tedesco fosse basato su Mozart (e non aveva assolutamente nessun problema ad aggiungere Richard Strauss) lui aveva una conoscenza profonda di Mozart, e la trasformazione del barocco nel barocco-rococò, l’aspetto mozartiano del comporre, della scrittura è quello che trapassa, anche se continua a dire per allontanamento, per lontananza, per dissolvenza in Strauss.
La macchina dei miracula barocchi non interessa molto a Strauss. I colpi di scena musicali non sono all’ordine del giorno, li ha molti di più Verdi, ma a lui interessa invece la macchina barocca, la macchina contrappuntistica barocca e l’utilizzazione dei leitmotiv, è spesso veramente non per giusta opposizione, come accade in Wagner, ma vengono questi leitmotiv sottoposti ad una centrifugazione di tipo contrappuntistico. Questa macchina contrappuntistica barocca subisce un alleggerimento di tipo rococò, e di questo è un esempio mirabile il prologo della Arianne.

Uno degli aspetti più caratteristici di Strauss è quello del nascondere un po’ le carte che sono in gioco. La Sinfonia delle Alpi con il titolo che porta potrebbe sembrare una musica a programma di tipo cinematografico. Sta di fatto che i contenuti che ci sono dentro rimandano ad un rapporto molto più intenso e molto più specifico che la cultura tedesca ha avuto con la Natura rifacendosi a quel filone della filosofia della Natura che parte dai presocratici e si continua in Giordano Bruno e passa per Schelling e poi arriva a Nietzsche ( anche se la filosofia della natura di Nietzsche bisogna prenderla come un paradosso), però il rapporto di tendenza che c’è nella musica di Strauss è verso questo aspetto della filosofia della Natura, in cui la Natura rappresenta un momento di inveramento delle forze più potenti che agiscono nell’universo.
Se la citazione che ho fatto di Giordano Bruno sembra casuale, non lo è affatto perché noi conosciamo un saggio su Giordano Bruno di Schelling, che è stato della filosofia della Natura uno dei rappresentanti più specifici, il problema era quello di rappresentare nella natura un aspetto forte delle tensioni dell’uomo verso i massimi valori. Nella Sinfonia delle Alpi c’è questo, anche se apparentemente camuffata, e in questa tendenza sotterranea, che c’è nella musica di Strauss, ha da una parte a cercare i grandi valori, dall’altra a nasconderli sotto un aspetto borgese che ha reso possibile un incontro con Hofmannsthal, che di borghese aveva semplicemente forse l’abito. In questo senso la Sinfonia delle Alpi ha nell’opera di Strauss un riferimento preciso al Così parlò Zaratustra, dove i riferimenti alla Natura sono presenti fortissimi, e il rapporto di rispecchiamento che c’è tra lo Zaratustra che al tramonto incontra delle fanciulle danzanti nel danze lied, e sente profondamente la melanconia dell’esistere e si scusa di questa melanconia dell’esistere, fa vedere come i rapporti tra le lacerazioni esistenziali siano proiettate in Nietzsche nella Natura, e anche momenti apparentemente cinematografici come l’inizio dello Zaratustra, non devono fare dimenticare il testo di riferimento di Nietzsche in cui il Sole, si nasce, ma da montagne nere.

Sinopoli: la mia Elektra al sangue

“Strauss mi ricorda la pittura di Klimt, ma ho lasciato sbizzarrire Ronconi

Da una parte, i libri di egittologia, sui quali Giuseppe Sinopoli studia dalle 7.30 alle 9.30 («una meditazione da monaco»): come a simboleggiare lo spazio intimo e profondo dove nasce l’approccio alla partitura di Strauss, che il direttore d’orchestra porterà dopodomani alla Scala. Dall’altra, le invenzioni di Luca Ronconi e di Gae Aulenti, pilastri neri quasi di catrame, piastrelle insanguinate della macelleria, quarti di carne: cioè la macchina del teatro, la fucina dove la partitura diventa opera, spettacolo.

I registi sono spesso la croce dei direttori. Sinopoli, che debutta in un’opera alla Scala, spiega: «Ho bisogno di registi con i quali ci si intenda in due parole. Ma non bisogna essere troppo rigidi. La musica, il corpo, lo spazio scenico hanno linguaggi diversi, e non è detto che chi sa gestire il suono sia padrone anche del resto.» […]

Sono stati giorni di lavoro severo, quelli di Sinopoli con l’orchestra scaligera, che oggi culminano con la prova generale: «Ha mostrato – dice – una serietà e una qualità d’impegno notevoli. La musica esige un serio lavoro artigianale.» La concezione estetica viene dopo: «Qui interviene la cultura personale. Un suono, un timbro, sono legati a suggestioni psicologiche, al contesto storico. Non si possono ignorare, a proposito di Strauss, la pittura di Klimt e Schiele, l’impressionismo. E conoscendo la metrica greca, scopro ritmi classici in questa partitura di danza che è ‘Elektra’.»

Sinopoli predilige il repertorio tra ‘800 e ‘900: «Una scelta nata da un problema culturale che per me è anche esistenziale. La crisi, il trapasso del secolo. E la ricerca degli antecedenti, fino a Beethoven. Indagherò più tardi il ‘700. Nella mia ricerca rientrano anche Elgar e Puccini, non un verista ma un tipico prodotto della crisi della borghesia italiana. Mi sento profondamente italiano, per me ha un grande peso anche Verdi: energia mediterranea che rimanda a modelli primordiali, violenza espressiva unita a una semplicità musicale. I miei progetti sono Verdi, Puccini, Wagner, Strauss.» Strauss: «È l’autore che più mi ha dato da pensare.» Perché – spiega Sinopoli – bisogna scoprirne gli elementi innovativi, ciò che è solo apparentemente conservazione. Non ama le etichette, il maestro, ma per Strauss propone cautamente l’aggettivo ‘postmoderno’, tra virgolette. Affronterà la ‘Donna senz’ombra’, «poi spero di dedicargli un saggio».

Dal ’92 Sinopoli guida la Staatskapelle di Dresda: il contratto scade nel ’97 ma già la programmazione si spinge oltre. Un direttore e un’orchestra: «Il segreto del legame sta nell’onestà. Se c’è onestà culturale e di rapporti sociali, allora s’instaura un vero scambio. Altrimenti si lavora in una rigidità che si riflette nelle esecuzioni. A Dresda il rapporto è di onestà, bellissimo.»

La situazione politica italiana gli strappa una smorfia sconsolata, quella tedesca parole pesanti: «La riunificazione non è ancora avvenuta. Nè psicologicamente nè economicamente. E nella cultura le cose sono difficili.» A Berlino la musica è sostenuta generosamente, «a Dresda invece lavoriamo in apnea. I professori dell’orchestra prendono il 20% in meno che all’Ovest, tra mille problemi pratici, una prospettiva che allontana i musicisti occidentali. Ho proposto a chi viene a dirigere la Staatskapelle, per esempio Levine, Ozawa o Barenboim, di ridursi il cachet del 40%, come me. E se voglio fare un’opera devo chiedere la carità ai cantanti, che altrove guadagnerebbero il doppio». Un’idea anche per l’Italia? «Anni fa, a Santa Cecilia, proposi di calmierare gli ingaggi. Arriveremo ad esserci costretti tutti. Nessuno sa cosa significa dirigere un’opera lontano da casa, parlare coi figli al telefono… Io prenderei un decimo rispetto a ora, pur di lavorare vicino alla famiglia.»

 

A cura di Marco Del Corona, Corriere della Sera, 26.5.1994

QUALCUNO VOLO’ IN GROPPA AL CIGNO

[…]
Non ho avuto che obiettivi culturali e non di carriera Mi ha sempre interessato il passaggio storico tra Otto e Novecento espresso magnificamente da Mahler, come dicono in più, ma anche da Wagner e Strauss. E questi autori sono irrevocabilmente legati a Monaco e Bayreuth. E credo che l’Italia possa trovare le sue forze in questo repertorio.
 

LA SICILIA 9.9.91
di Carmelita Celi