Parsifal a Venezia

La testimonianza della complessità di un itinerario spirituale e culturale che non si risolve soltanto nella composizione e nella direzione d’orchestra.

 

Terminata la “prova al pianoforte della prima parte del terzo atto”, una sera il maestro Sinopoli esce dal teatro, e “in quel silenzio misterioso che solo a Venezia è possibile”, distratto dalla risonanza di un Leitmotiv – quello dell’Errore -, non ritrova la strada e si perde nell’intreccio delle calli veneziane. Si perde e vuole perdersi, come se l’onda della musica wagneriana lo avesse davvero stregato, interrogandolo sulle ragioni della vita e della morte e al tempo stesso, complice lo scenario notturno della sua città, suggerendogli una via d’uscita o una risposta. Parsifal è figura altamente simbolica, è il giovinetto barbaro e ingenuo, è l’eroe folle e pietoso, che cerca la verità attraverso l’errore, il bene attraverso il peccato, il giusto attraverso la colpa: Sinopoli si specchia nel mito, ricco di esperienza e di maestria, niente affatto candido, anzi astuto e sottile. Parsifal è Sinopoli, o meglio il suo doppio, e al tempo stesso il suo antagonista, e Venezia è il mondo o piuttosto la sua raffigurazione intellettuale: nel confronto e nell’incontro di due figure mitiche, di due esperienze esistenziali e intellettuali si scatena una tempesta, che deve essere placata, mentre il tema dell’Errore non lascia la presa. Il libro di Sinopoli è il racconto di un’avventura, la storia di uno smarrimento e soprattutto del lento, faticoso riconoscimento del senso e della direzione.

prefazione di Cesare De Michelis
pp. 144 ed. 2002
978-88-317-7914-2
IO, PARSIFAL E LA LAGUNA

“Ero giunto, assorto in queste riflessioni, alla punta estrema delle Fondamenta Nove. Ancora una volta, un punto cieco: davanti a me stava la Sacca de la Misericordia che, incuneandosi a sud-ovest, avrebbe formato il canale de la Misericordia. Tornai indietro. Mi resi conto che avevo tentato di percorrere un arco di cerchio la cui origine era all’uscita di calle Ruzzini sulle Fondamenta Nove, nel punto cioè di apparente uscita dal labirinto.

Ero divenuto perfettamente consapevole che il mio smarrimento aveva dato inizio a un viaggio misterioso che dovevo compiere fino in fondo. Prendendo come punto di riferimento San Giovanni e Paolo e proseguendo mentalmente sino a San Marco in senso orario e destrorso, mi accorsi con stupore di aver compiuto dalla Fenice sino all’uscita di calle Ruzzini un itinerario labirintico sotteso a un arco di cerchio.

La Sacca de la Misericordia aveva interrotto un altro arco di cerchio. Ne trassi due conseguenze. Senza rendermene conto, seguivo un cammino che, partendo da sud e dirigendosi verso nord-est, assumeva progressivamente la forma di una semicirconferenza. Poi, il quadrante di cerchio interrotto dalle acque della Sacca doveva essere ripreso e percorso: ero sicuro che sull’asse passante per il punto terminale della semicirconferenza e nord-ovest e per la Fenice a sud-est avrei trovato qualcosa di fondamentale, che avrebbe forse chiarito le ragioni del mio viaggio.

Avevo percorso un quadrante del cerchio immaginario che andavo tracciando mentalmente. Dovevo ora completare il tragitto. Imboccai a destra la prima calle, tenendo conto però che la direzione del mio cammino doveva essere antioraria e sinistrosa.

Tentai quindi, alla prima occasione, di lasciare sulla mia destra la calle longa Santa Caterina, dopo aver calcolato mentalmente il tratto della Sacca antistante al canale del la Misericordia: speravo di trovare un ponte che mi portasse all’altra riva. Subito dovetti constatare che la calla dei Colori era un tratto cieco che finiva nel canale; avevo voltato troppo presto.

L’esperienza labirintica continuava, il problema del bivio veniva riproposto. Tornai indietro e ripresi verso destra la calle longa Santa Caterina.

I percorrimenti terrestri del labirinto erano costituiti dalle calli. Le calli sono vie strette, che alcune volte non superano i l metro di larghezza, fiancheggiate da case e palazzi che, a chi le percorre, paiono creare una prospettiva imponente e inquietante. La strettezza impedisce alla luce del sole, o ai raggi della luna, di giungervi interamente sicché anche in pieno giorno l’oscurità caratterizza a Venezia la via terrestre. Il procedere relativamente oscuro e labirintico delle calle rievocava, soprattutto quella notte, le catacombe romane, e ne evidenziava la simbologia iniziatica di cui sono riflesso.

La <<strettezza>> della via, come quella del ponte e della porta, significano simbolicamente la difficoltà del processo iniziatico, del passaggio da uno stato di conoscenza a un altro, da una situazione esistenziale a una più elevata. Il passaggio racchiude in sé anche i significati della <<continuazione>>, del <<procedere>> sempre più avanti a livelli superiori di iniziazione, di <<rinascita>> perenne. La strettezza del passaggio significa la difficoltà e, in altre raffigurazioni simboliche come la <<lama del rasoio>> anche la pericolosità, correlate alla << rottura>>, al trascendere. Avevo intanto oltrepassato il ponte Molin e proseguivo per la calle de la Racheta. Mi resi conto di allontanarmi troppo dall’arco immaginario che mi ero proposto e fui preso da un’indefinita inquietudine. Alla prima occasione voltai a destra, e mi trovai nella corte dei Preti. Non avevo altra possibilità che percorrere un vicolo alla mia sinistra in cui la corte si stringeva. Mi si presentò un bivio: proseguendo a sinistra, calcolai rapidamente, sarei tornato alla calle de la Rocheta: andando a destra, avrei raggiunto la riva opposta. La particolarità di questo bivio era l’essere costituito da due sottoporteghi.

Il sottoportego è un percorso terrestre ottenuto con un attraversamento nel corpo stesso di un edificio. Esso ha soprattutto la funzione di passaggio. Il suo significato può essere dedotto dalla differente tipologia secondo la quale tale passaggio si presenta.

Il mio viaggio stava assumendo sempre più una dimensione simbolica. Ripercorsi mentalmente i sottoporteghi già attraversati quella notte. L’ultimo congiungeva due percorrimenti terrestri, una calle a una calle: era quella tra celle Stella e calle larga dei Boteri, immediatamente prima d’imboccare calle Ruzzini, l’uscita apparentemente dal labirinto. Era una grotta-caverna interposta tra due camminamenti simulava un <<viaggio sotterraneo>> seguito da un <<viaggio all’aria aperta>>. La morte al mondo profano, seguita dalla discesa agli Inferi, viene rappresentata simbolicamente dall’oscuro percorrimento terrestre che, spesso introdotto da un arco e con un soffitto a botte, è assimilabile alla simbologia della caverna che dà accesso al viaggio nel mondo sotterraneo, come già l’antro della Sibilla Cumana. La caverna, come luogo in cui si compie l’iniziazione, compone la morte e la >>seconda nascita>> come due aspetti di uno stesso mutamento di stato.

<<Il passaggio da uno stato a un altro >> si deve <<sempre effettuare nell’oscurità; in tal senso la caverna sarebbe, dunque, più esattamente, il luogo stesso del passaggio>>: Il passaggio dalle tenebre alla luce sanziona la nuova epifania, la seconda nascita.”

Giuseppe Sinopoli

IL MIO GRAAL NELLE CALLI DI VENEZIA

Qual è stata la genesi del libro? Quale idea c’era dietro, da spingerla a ritagliarsi il tempo per scrivere?
Il racconto era stato in qualche modo concepito nell’89, quando tornai alla Fenice per dirigere il Parsifal e mi capitò d’immergermi per due mesi in riflessione su quell’opera. Pensai molto, in quel periodo, alla frattura fra il testo wagneriano, grigio e cupo e moraleggiante, e quelli degli scrittori medioevali che avevano tratto il tema del Graal in modo certo più “luminoso”. E pensai all’apparizione del tempo dell’opera, alla musica cioè, che è per contrasto “luminosissima”. Una dicotomia che intuii pure in Venezia, la cui prima contraddizione sta nella stessa sua origine.

 

Allude alla morfologia della città? Al suo << galleggiare>> ?
Si, e infatti mi venne in mente quel frammento di Eraclito sui rapporti fra acqua e terra, vita e morte, che qui sono in miracoloso equilibrio. fui colpito, poi, da tutta una serie di forme e significati: gli ossessivi incorniciamenti bianchi, le pietre che cambiano colore, la doppia “esse” del canal grande… mi parve fatale che producessero quasi dei disagi mentali.

 

Disagi che possono portare persino un veneziano a perdersi?  L’episodio dello smarrimento è vero o è solo una metafora?
È stata un po’ una finzione letteraria. Ma l’esperienza del perdermi a Venezia, l’ho subita diverse volte, e da ragazzo l’ho anzi coltivata. Singolare è che mi sia accaduto di smarrirmi anche dopo aver scritto questo libro, e nei medesimi luoghi. È un tipo di prova che ti può far entrare in una doppia condizione psicologica, sub o sovra-liminale: o ti lasci andare, passivo, oppure acuisci la sensibilità e scopri cose che prima non vedevi.

 

Quali sono le scoperte della fuga nel labirinto?
Anzitutto, tornando alla forma urbis, la constatazione che forse Venezia non è stata “fondata” così com’è, quanto piuttosto “rinvenuta” , col suo groviglio naturale di simboli e significati.
E la considerazione per cui io, avendo in testa il Parsifal, sono stato misteriosamente “convocato” nella zona del Ghetto dove ho trovato il nome di Orgheluse, beh, una cosa del genere si sarebbe già bravi se si riuscisse a inventare in una città che non esiste, ma il fatto è che l’ho ritrovata esattamente così e in una città vera. Come ho ritrovato il tema dell’Incantesimo del Venerdì Santo e cento altre coincidenze. Mi sembra quindi sicuro che a Venezia si rispecchino le tracce di un modo di concepire una città come c’era ai tempi molto antichi, quando l’architettura era dissiminata di significati e simboli.

 

Non sarà che, in questo vagabondaggio intarsiato di richiami eruditi, ha piegato la realtà per vedervi confermata una sua idea? Commettendo cioè il “peccato d’orgoglio” del quale sentenziava Evola, da lei citatissimo?
Il punto è che ho sul serio rinvenuto queste cose, un filo che porta indietro, e non mi pongo la questione del perché sono nate. Quanto al peccato d’orgoglio, credo che la cultura si serva di due armi, per andare avanti: una è il furto, come mi pare disse Strawinskij, e l’altra è appunto l’orgoglio. Furto nel senso di far proprio ciò che si è letto, e si è letto specialmente da giovani, negli anni in cui si vede l’universo attraverso il cristallo magico della biblioteca infinita. Orgoglio nel senso tentar di cambiare il proprio mondo, spostandosi e mutando prospettiva, indirizzati magari da quanto si è trovato nella biblioteca.

 

Colpisce questa sua insolita formazione culturale. Verso dove la conduce? E quanto incide nel suo essere musicista?
Finora è stato come spostarsi a cercare da uno scaffale all’altro di quella biblioteca di cui parlavo. Ora, poiché la musica in se non è un problema di gnosi, di conoscenza, ma di espressività, un giorno ho capito che essa non poteva essere l’unica componente della mia vita: importantissima sì, ma non l’unica. Ed ecco così l’irrompere di altri problemi di conoscenza, come la medicina. L’esoterismo, l’archeologia. Problemi che ti mettono in rapporto con le cose e gli uomini che ti spingono a cercare, mentre con la musica semplicemente esprimi.

 

 

CORRIERE DELLA SERA 22 DICEMBRE 1991

Di Marzio Breda