Schumann: Symphonie No.2 – Manfred-Ouverture

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Schumann

Sinfonia n.2 in do maggiore, Op.61

37′ 51″

Sostenuto assai – Allegro, ma non troppo
11′ 52″

Scherzo. Allegro vivace
6′ 49″

Adagio espressivo
11′ 16″

Allegro molto vivace
7′ 54″

Manfred, Op.115

12′ 10″

Ouverture
12′ 10″

Wiener Philharmoniker
Giuseppe Sinopoli, direttore

Registrazione: Musikverein, Grosser Saal, Wien – giugno 1983 – studio

1° Edizione in LP DEUTSCHE GRAMMOPHON – 410 863-1 – (1 lp) – durata 50′ 31″ – (p) 1984 – Digitale
1° Edizione in CD DEUTSCHE GRAMMOPHON – 410 863-2 – (1 cd) – durata 50′ 31″ – (p) 1984 – Digitale DDD

 

Alcune note su sanità e malattia nell’invenzione schumanniana a proposito della II° Sinfonia

Con Schumann inizia, e con tutte le conseguenze, l’attacco ineluttabile del soggetto ai suoi mezzi di espressione, lo scontro delle tendenze psicosoggettive col materiale depositato dalla storia.

Certo Schumann, da parte della miopia “accademica” che quegli attacchi e scontri non intende, è oggetto di sospetti e critiche limitative che abbracciano l’armonia, l’orchestrazione, la forma. Ora, il suono schumanniano non nasce da una calibratura dell’orchestra in funzione di un’equa distribuzione dei pesi fonici e timbrici, in rapporto all’analisi armonica e come amplificazione verticale del basso, bensì si forma a priori, intuitivamente, come un bagliore percettivo autonomo.

In questo senso non è tanto, ad esempio, il flauto o la tromba che vengono utilizzati in funzione di una orchestrazione globale, quanto è l’idea psicosoggettiva evocativa del flauto o della tromba che entrano autonomamente nella struttura armonica, portando il loro suono e il loro carattere specifico. Insomma si vuole qui pensare, e forse per la prima volta, insieme a Berlioz, nella storia della musica, a una corrispondenza evocativa dell’immagine timbrica dettata dalla sfera mobile psicologica, con la prima istanza del fatto compositivo.

Le forme paranoico-ossessive schumanniane vanno lette non solo come un dato di cronaca biografica di carattere medico, ma come una delle componenti e delle istanze fondamentali del suo fatto compositivo.

Qui comporre diventa non solo un fatto liberatorio di spinte centrifughe anelanti ad affermazioni d’identità ed a esteriorizzazioni di potenza, bensì la traccia di una frenesia instabile oscillante tra le esaltazioni ascensionali e positive e gli sprofondamenti ipocondriaci di un soggetto in cui la labilità psichica trovava nella vorticosa instabilità   del materiale musicale una sua amplificazione. C’è una “morbidità” quasi perversa nella definizione sonora della nostalgie schumanniane, sia che esse siano storiche, come i fantasmi bachiani nella parte centrale del terzo movimento, sia che ricadano nella sfera del privato, cioè in quel cantarsi addosso, in quel ributtarsi dentro il cervello e dentro la carne un canto che non è Spirito, che non è parto dell’equilibrio delle Nature, che non è Estetica, ma antropologia minata e fremente.

Circa cinque anni prima (nel 1840) avrebbe scritto a Clara durante la stesura del Liedeerkreis su testi di Heine. “… i suoni, la musica mi uccidono in questo momento, sento che potrei morirne. Ah Clara, che felicità divina scrivere per il canto”. Ed il canto è sempre della notte: “Vorrei cantare come l’usignolo, fino a morire”.

Sarebbe ora di smettere di fabbricare continuamente passaporti di sublimazione del corpo attraverso la “profondità” dello Spirito. Il corpo ha degli abissi molto più terrificanti e le lacerazioni tragiche della memoria, o i ponti buttati tra le sfere associative inabituali, sono momenti con cui il nostro presente è obbligato continuamente a confrontarsi. In questo senso, e viva Dio, l’arte schumanniana non è la “grande Arte”, quella collegata con le Immobilità astrali dello Spirito, bensì quella che si agita dietro i sobbalzi di una materia minata dalla instabilità psicologica, ma, appunto per questo, nostra, tragicamente attuale.

Sarebbe ora di smettere di giudicare la musica del secolo 19° una facendo solo di temi e di forme, e di giudicarla più o meno grande, più o meno riuscita solo in virtù della sola corrispondenza tecnica, teorica e astratta a questi parametri.

In questo senso Schumann non passerebbe l’esame; i suoi temi sono spesso brevi o faticosamente sbalzati, spesso costruiti su ritmi continuativamente e ossessivamente puntati, le sue armonie a volte giustapposte senza funzionalità, e riincollate con difficoltà.

Il tentativo di creare rapporti o equilibri formali nasce sempre dall’esterno, è artificioso, dolorosamente faticoso e dove, come nel finale, la ripartizione dei periodi è più chiara, più regolare, più simmetrica, è proprio là che la linea globale della forma appare meno convincente.

“Solo nell’ultima parte mi sentivo rinascere” scriveva Schumann a Otten nel dicembre 1845 ed è strano che la risoluzione della malattia abbia spento quel terribile fuoco inventivo che bruciava dal di dentro le forme già esistenti e le scuoteva violentemente sotto l’impulso di una febbre eccitante e demoniaca, nei precedenti movimenti. Lo Scherzo recupera il senso della danza storicamente depositato in quella forma altrove che nel ¾ trasformano adesso in 2/4. E lo recupera “deviandolo”: la frenesia del “continuum” ritmico dei primi violini s’inchioda periodicamente con le crome degli altri archi, chiodi infuocati che penetrano in un cervello sconvolto dal ritmo ossessivo di una danza infernale. Il recupero del ritmo ternario nel trio è un’apparente quiete, la coda riporterà quella danza al più elevato grado di sopportazione fisica.

Ma il canto che con quella scolarità non aveva da lottare, ma gli volava al di sopra, l’Eusebio irrecuperabilmente e tragicamente melanconico, si librava nel terzo movimento negli abissi più desolati e inconsolabili di quelle regioni dell’anima che sono tutte umane, tutte appassionatamente terrene. E quando la memoria s’insinua, quando i contrappunti bachiani appaiono, nella parte centrale, come lunghissime dita di ragno che tessono nella notte una crudele tela d’argento, segnata, nel cantabile a tratti sincopato che risponde, dalla bava stanca della notte afosa che precede la rugiada del mattino, allora la tristezza ed il terrore insieme sono inenarrabili.

Quando il canto riapparirà ai legni sarà imprigionato da questa tela di ragno che lo soffocherà, lo renderà definitivamente perduto. I rassicuranti corali-maschera di marca luterana in cui trova conforto la spinta trionfalista e ingenua dell’ultimo movimento, sono bel lontani dalla forza inventiva dell’Adagio malato.

Ma laddove il clarinetto compare per riproporre il secondo tema rovesciato che altro non è che il tema dell’Adagio stravolto dall’accelerazione temporale e dall’inversione degli intervalli, la sanità e l’equilibrio cedono, per un attimo, il passo alla memoria personale di quello stato di turbamento e di malattia, e quindi precisamente, a quel tema d’allora che di tale malattia appunto è la traccia scolpita.

 

Giuseppe Sinopoli