La macchina del tempo

Perché a cinquantaquattro anni, un direttore d’orchestra di grande fama vuole laurearsi in archeologia?

Per recuperare un’antica passione adolescenziale, accantonata per più di vent’anni a favore degli studi di medicina e di quelli musicali. Sapevo, però, che ci sarei tornato su prima o poi. Ed è successo quando dieci anni fa smisi di fare il compositore per dedicarmi esclusivamente alla direzione d’orchestra. In quel momento sentii il bisogno di sostituire la scrittura musicale con lo studio dei geroglifici egizi: come i segni della musica creano un mondo espressivo che rivela il mondo esistenziale che abbiamo dentro di noi, così la scrittura ideogrammatica, geroglifica, altamente simbolica, è in grado di generare momenti di cosmogenesi, cioè momenti in cui il mondo, un mondo intero, viene ricreato.

Dunque è cominciato tutto tra le Piramidi, in Egitto.

In realtà no. La passione è esplosa davvero grazie ad un viaggio in Israele, quando attraversando il deserto intorno al Mar Morto, abbacinato da quella luce, sentii che c’era un mondo che mi attraeva. Che però doveva essere scoperto e non semplicemente visitato da turista. Allora mi rimisi a studiare la storia della nostra cultura, quella mediterranea. E mi resi conto che quella era una zona importantissima, di intenso scambio e di passaggio fra due civiltà cui sono d’avvero molto legato: quella dell’Egitto, appunto, e quella della Mesopotamia, soprattutto della sua parte settentrionale . Che diventerà poi siriana ed anatolia.

Quale è la differenza fondamentale fra queste due culture, quella che rende affascinante per tutti la civiltà egizia e molto meno conosciuta quella mesopotamica?

Certamente la visibilità, la monumentalità della civiltà egizia. Anche l’occhio meno attento non può sottrarsi al fascino e alla meraviglia suscitati dalle Piramidi o da Abu Simbel. È un po’ come la musica di Mahler che, suo malgrado, è molto popolare: anche in Egitto, nonostante l’inaccessibilità della lingua per i non specialisti, rappresenta un capitolo dell’archeologia molto noto. Apparentemente è molto esplicito, mentre in realtà è complicatissimo, ricco di alleanze e significati altissimi. La Mesopotamia sfugge, invece, a questo forte impatto popolare perché i rilievi (soprattutto quelli assiri) e i pochissimi resti pittorici che abbiamo sono molto meno appariscenti, meno visibili, caratterizzati da una durezza e un’arcaicità che li rende criptici., difficilmente penetrabili. Anche se ci parlano di un mondo affascinante di riti religiosi, danze cerimoniali, cacce sacre e feste regali.

Lei ha alle spalle nove anni di studi egittologici che le hanno insegnato, fra l’altro, a leggere i geroglifici. Perché ha scelto di dedicarsi ad una tesi di assiriologia?

È vero, l’Egitto è stato il mio primo amore, ma quello per la Mesopotamia è divenuto presto un amore parallelo altrettanto forte e per certi versi più stimolante, perché più complesso. Per la mia tesi, che discuterò con il professor Paolo Matthiae, lo scopritore di Ebla, ho affrontato uno dei punti, certamente fra i più interessanti dell’archeologia siriana. Si tratta del problema dell’origine e del significato di una struttura architettonica, di un modulo architettonico chiamato Bit-hilani, il cui nome è un mistero. Non si sa esattamente, infatti, cosa voglia dire, né da dove provenga. L’unica cosa certa è che si tratta di una parola che indica una costruzione, un complesso architettonico legato alla regalità, che i sovrani assiri dell’ottavo e del settimo secolo hanno importato dalla Siria. Nella mia tesi, in particolare, mi soffermo sul significato che Assurbanipal, l’ultimo re assiro, avrebbe dato al suo Bit-hilani, evincendolo, con l’aiuto anche di tesi contemporanei, dai rilievi scolpiti sulle pareti del portico situato a nord-ovest del suo palazzo, il Bit-hilani appunto. Questa costruzione avrebbe avuto la funzione di esprimere la legittimazione del potere regale di Assurbanipal, con tutta una serie di riferimenti alla situazione storico-politica che trovava nelle formazioni teologiche il suo contatto con le masse popolari. Intendo inoltre fare risalire alla Mesopotamia meridionale, all’epoca della divinizzazione del potere regale, il trasferimento di elementi architettonici, originariamente religiosi, dalle strutture templari e di culto a quelle dei palazzi reali. Che avrebbero poi costituito il nucleo del Bit-hilani.

Questo significa che l’Egitto, dopo tanti anni di passione, è definitivamente dimenticato?

Non necessariamente. Continuerò ad approfondire questo filone di ricerche, ma non escludo, con molta calma e molta pazienza, di poter individuare i riflessi anche in Egitto, che di certo ebbe profondi legami con la Mesopotamia nel corso del terzo millennio.

L’argomento della sua tesi è altamente specialistico. È una scelta obbligata, dettata dal fatto che ormai non è più tempo di scavi e di nuove grandi scoperte? Significa, forse che in futuro gli archeologi dovranno soprattutto analizzare più a fondo il significato di ciò che è già stato portato alla luce?

Normalmente io ho poco tempo a disposizione, ma ho comunque  avuto la fortuna di partecipare agli scavi del professor Paolo Pecorella, in Siria, e di visitare  e studiare personalmente tombe e siti in Egitto. Tutte occasioni in cui all’approccio scientifico si è associato il fascino dell’archeologia romantica, della sfida ottocentesca, in cui l’avventura intellettuale si sposa con quella fisica, l’avventura del viaggio. Ma è anche vero, come mi insegnava l’egittologo Alessandro Roccati, uno dei miei maestri, che solo in Egitto c’è a disposizione una quantità così immensa di materiale. È già stato riportato alla luce, ma non è ancora stato preso neppure in considerazione dagli studiosi.

Insomma: non c’è più nessuna Troia in attesa del suo Schliemann.

Non è proprio così. C’è ancora una grande scoperta da fare e sarebbe assolutamente straordinaria: trovare la città di Akkad. Nessuno ci è ancora riuscito, nessuno sa dov’è. Potrebbe essere sotto Babilonia, potrebbe essere vicino a Babilonia. Era una città importantissima, capitale di un immenso impero mesopotamico costituito nell’ultima parte del terzo millennio a.C. da genti semitiche guidate da grandi re. E con una struttura del potere assai diversa da quella che c’era nella mesopotamia sumerica, abitata da popolazioni autoctone.

Cosa ascolta quando si immerge nei suoi studi archeologi?

All’inizio ascoltavo soprattutto Bach. Poi sono passato a Beethoven: gli stessi che, come per caso ho scoperto più tardi, portava con sé un grande direttore d’orchestra del passato. Wilhem Furtwangler, quando seguiva le campagne di scavo del padre. Che era un famosissimo archeologo del tempo, direttore della criptoteca di Monaco. Ma quando ci si trova sul campo, quel che conta veramente è il silenzio. È lo stesso silenzio che affascina il musicista: è nel silenzio che le pietre devono tornare alla luce perché ci possano parlare del senso del passato.

Perché per lei ( e per tutti gli appassionati di archeologia) il passato è così importante, tanto da meritare una delle sue opere più famose, i Souvenirs à la memoire ?

Perché solo i ricordi, la ricostruzione del passato, la rielaborazione della memoria hanno il potere di farci andare avanti e di darci la forza per creare delle nuove ipotesi, delle nuove utopie. Il futuro esiste solo come rielaborazione del passato, mentre il presente non è che una forma di transizione. Credo che l’archeologia affascini tanto i giovani perché è un modo, non sterile e velleitario, di evadere dalla realtà attuale, di tornare indietro alle origini. Così scoprono modi diversi di vedere il mondo, e riempiono quello che mi sembra essere un senso di vuoto sempre più diffuso.

Quali sono le qualità principali che bisogna possedere per essere un grande archeologo?

Prima di tutto l’intuito. Penso spesso a Henry Frankfort, uno studioso di grandissimo livello poco noto al grande pubblico e che io amo moltissimo. Era un archeologo che scavò a lungo in Egitto, prima di innamorarsi a sua volta della Mesopotamia. Non vedeva l’archeologia come un catalogo di cose ritrovate, ma come una disciplina capace di sviluppare le sue capacità intuitive: che gli permisero di raggiungere grandi sintesi conoscitive e di formulare ipotesi di lavoro verificate sul campo solo quarant’anni dopo. E poi bisogna avere fiuto. Perché, come diceva Karl Kraus, l’intellettuale, l’artista, in questo caso l’archeologo, è come un cane da caccia che, grazie al fiuto, sa spostarsi verso la direzione giusta: con la sua opera sa farci capire qualcosa di più su quel che siamo, su dove andiamo. E non è davvero poco.

 

 

La Macchina del Tempo, marzo 2001

di Alessandro Cecchi Paone,