GIUSEPPE SINOPOLI: L’ORGOGLIO DELL’INTELLIGENZA

Il direttore? Stravinsky dichiarava che i soli grandi direttori d’orchestra sono quelli che compongono.  Sul podio, fra i suoi colleghi,  c’erano  Richard Strauss e Gustav Mahler. Poi, venne il divo. L’attenzione fu spostata dalla partitura agli specchi. Ci furon contri­buti preziosi, meraviglie; ma qualcosa di spostato si sente. Io non sono un direttore dai capelli laccati, non amo il frac, non cerco una formula pubblici­taria legata al gesto , alla persona, al nome. Vorrei che non si ricordasse la mia faccia o  il mio nome come  quello d’uno che è bravo, uno che dirigeva molto bene non si sa più che cosa; vorrei, come finora spero sia accaduto, che si ricordasse semplicemente come ho diretto Mahler, o Schumann, o Verdi. Sono ambizioso, sono anche orgoglioso, sono anche forse quello  che si dice figlio di buona donna, ma non vorrei mai che qualcuno mi rite­nesse bravo e non sapesse quando gli sono apparso tale, e perché.

Davanti alla finestra dell’Hotel  Brufa­ni, nella sala tranquilla –  ed  entra  il sole,  nel settembre  mitissimo,  e la luce si stempera giù giù  nella  campagna umbra  –   Giuseppe  Sinopoli  risponde a mezza  voce  all’intervista.  Silvia gi­ ha messo la poltrona  in  postazione classica, e scruta, dietro alla macchina fotografica, l’assorta faccia  barbuta, occhiali da musicista linea  Schubert-Mahler,  con  un’ombra  sapiente da rabbino,   e  capelli  accuratamente ispidi, sui quali  mai  potrebbe  posarsi lacca. Inappuntabilmente alternativo.

Lei m’ha chiesto se mi ritengo soddisfatto e a mio  agio  a  questo punto della  mia  carriera.  Io  credo ed ho sempre creduto ad una  specie  di aplomb fisico: uno cade dove deve cadere. Perché, Lei dice, adesso è  il  mio momento? Non me ne sono mai interessato.

È difficile catturare il linguaggio di Sinopoli sulla pagina. Le frasi, l’accor­tezza logica, l’astuto ordinamento che suscita provocazione e sottilmente ne anticipa le risposte vincenti, le parole che concedono sbocchi confidenziali rimanendo nella sfera della cultura da intellettuali, scritte così come sono state pronunciate sembrano dipanarsi con convincimento, ma senza segretez­za, senza pudiche allusioni ad una sorte di lontano mistero. Nel tutto logico, tutto giusto, tutto furbo, si  perde – immaginatela, vi prego – la qualità più interna, il retrogusto più antico, l’appello a credere che mai si perderanno le proporzioni: io parlo bene, io voglio farti su, devi capire che io sono bravo, ma so che non è tutto, forse non è neanche importante, una realtà più grande ci detiene, siamo diversamente liberi e impegnati, siamo diversamente degni e preoccupati, for­se siamo compagni di viaggio. lo viag­gio in prima classe, ma è  destino. Spero  anche  tu.  Ma importa?

Sì, è vero, ho  fermato  l’orchestra, quella volta, in  Emilia.  Era  un  tempo di sinfonia di Mahler. Feci ripetere l’attacco, tornando indietro.  Non  si usa, lo so. Ma non si usa perché c’è un rituale  ufficiale  del  concerto,  quello del frac, quello di non ammettere l’errore, quello di non mutare mai comportamento. A me sta a cuore la musica; se non va bene, io trovo naturale riprendere da  capo.  L’ho fat­to anche altre volte: anche a  Parigi,  ben poco tempo fa. Se c’è una compo­nente esibizionistica, non lo faccio apposta. Alla domanda “perché ha ricominciato da capo?”, la risposta unica che mi viene è: “perché sono entrati  male  i violoncelli”.

*  * *

Maestro Sinopoli, Lei ha trentasette anni tra non molti giorni. Veneziano. cresciuto in Sicilia. Medico, laureato a Padova. Quasi autodidatta nella musi­ca; poi, a Darmstadt ha frequentato corsi con Stockhausen; ed a  Siena dieci anni fa faceva da assistente a Donatoni. Io mi ricordo il suo pezzo: era in mezzo a tanti altri, ma era lei quello da tirar fuori; in redazione del mio quotidiano, intitolarono l’articolo “Con i complimenti al signor dottore”. Poi scrisse molte o poche altre cose. Udii l’opera Lou Salomé: era l’opera d’un compositore che faceva soprattutto il direttore e si occupava soprattut­to del Novecento storico tedesco. Era una cosa come avrebbe potuto scrivere un Cerha, che finì la Lulu di Berg e adesso quando scrive musica sua sembra Berg redivivo; soltanto aveva un diverso tumultuare nell’ordine delle cose; come se fosse una prova, di quelle che non si sa se servano  per dare un impulso alla propria creativi­tà, o per  mettere intanto  giù qualcosa di sicuro, che qualifichi, e sia a modo suo compiuto. Quando, fra non molti anni, scriverà ancora e  risentirà di tutto il mondo complesso e contraddi­torio delle cose che dirige adesso, lì sapremo che cosa e chi sarà. Io aspet­to, con fiducia. Ma lei s’è preso nel frattempo due orchestre come diretto­re stabile: la New Philharmonia e  Santa Cecilia; e incide opere e concerti a ritmo tutt’altro che timido. Che cosa fa,  Lei,  per scoprire  chi è?

Qualcosa ho già scoperto. Per esem­pio, che sono un direttore.  Un direttore a cui i professori d’orchestra dàn fiducia, dato che m’han chiamato in queste orchestre concordemente. E un direttore che ama il suo lavoro. O meglio, che s’impegna nel lavoro quanto può, cioè totalmente, perché il lavoro per far musica è una cosa seria; ma anche che sa che la musica nasce dal lavoro, ma non è lavoro. Far musica è una cosa che va oltre. Mi irrito molto quando nelle prove qual­cuno non suona come se fosse al concerto. È stupido pensare di prepa­rare con distacco l’esecuzione e poi mettercela tutta quando c’è il  pubbli­co. Quando si è a contatto con la musica, bisogna darsi alla  musica, ogni volta del tutto. E  a  mio  avviso con questa onestà e con questo deside­rio  si ottengono  meglio  i  risultati, e i risultati son di tutti; il direttore deve avere l’orchestra unita, che ha speri­mentato, che ha raggiunto, che è con­vinta, che sa e sente il risultato della sua fatica. Certo, il lavoro tecnico e anche arido è una parte esistente. L’orchestra di Santa Cecilia ha preso l’abitudine con me di dedicare un quarto d’ora all’intonazione prima d’o­gni prova. È un’orchestra mirabile; seria, disciplinata. Quando si torna dalle grandi orchestre dell’estero, in Italia, si han talora delle impressioni deludenti, dei mancamenti… Ma l’or­chestra di Santa Cecilia non fa sentire il vuoto d’aria.

Ho scoperto anche quest’altra cosa, di me: che mi riesce di lavorare molto meglio se agisco sulla comprensione mentale e psicologica del mio pensiero,  da parte  dell’orchestra; senza rinunciare per nulla alla mia natura, alle mie convinzioni, ai miei metodi. Io sono veneziano, ma la mia formazione musicale è soprattutto tedesca. Ho certe mie caratteristiche diverse da quelle dei direttori italiani. Per esempio, io desidero un ritardo nell’attacco dell’orchestra, rispetto a quanto avviene abitualmente in Italia sul gesto del direttore; un tempo, breve, ma esistente, di riflessione , di coscienza fra il gesto e il suono. In questo modo son convinto che i pro­fessori siano costretti a sentire il tem­po interiore, che è una cosa diversa dal tempo comandato dal direttore. Avevo qualche preoccupazione: a Londra si son sùbito adattati, ma a Roma è assai diverso che a Vienna e che a Berlino. Ieri in  prova  ho avuto un momento  di panico, dopo una pausa libera, antici­pando il gesto: dovevano suonare tutti insieme un accordo in se stesso isolato, e non c’era una ritmica obbligante, per cui fosse sufficiente contare. Fra  il gesto andato giù e l’ascolto del suono, mi domandavo: arriveranno tutti insie­me per davvero? E ci sono  arrivati. Era la prova che avevano interiorizza­to il tempo, erano accomunati. Erava­mo accomunati. Comunque, per sco­prire chi io sia, un po’ lascio che il flusso della vita mi porti: della mia vita, s’intende; sono fatalista, non ci sono programmazioni per costruire la propria vita interiore e tanto meno per la propria personalità artistica. E un po’ mi tengo tempo libero: tre mesi l’anno, per studiare, per comporre, quando voglio.  Non   voglio neppure dirigere troppo: due opere l’anno, per esempio, e non più. Ci sono  meno  soldi in arrivo, ma si riesce a ottenere una maggiore convergenza di energie su quello che si sta facendo. Sono fatalista;  ma anche attento.

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Hanno portato un thé, su un vassoio pesante, in tazze delicate e sostanziose . Qui a Perugia sono all’antica, nella tradizione grande. Più tardi, ci sarà la prova generale del Requiem  di Verdi, in memoria di Anna Magnani, nell’an­niversario della morte. Nella hall, po­chi metri più in là, c’è il cordiale, ostentato, incontrarsi amichevole di critici ed operatori musicali, per la Sagra Musicale Umbra. Orecchie tese, sembra  di  vedere,  nelle signore accomodate sui divani con nonchalance. Tra il mistico umbro affetto e la con­giura da corridoio di Montecitorio, il solito clima. Prima è venuta a salutare la giovane moglie del maestro: imma­gine all’antica, come una figuretta snella da quadro rinascimentale, bion­da e lieve, di quelle che i pittori metto­no per indicare il respiro felice della natura; e, come c’era da prevedere, naïve al punto giusto. Se n’è andata subito; siamo soli, lasciamo che si scolino  nell’a ia  le  sensazioni di tanti  incroci  di civiltà.

– Dunque, meditativo, e tedesco. Ma anche  problematico.   Penso  al  suo Dutsche Requiem, inciso per la Deut­sce  Grammophon,  nella   “Brahms ediition”. Anzi, le voglio confessare che non ne ho preso il bandolo. Ma c’era?

C’era,  non   so  se  si  capisca  bene in Italia.  Gli inglesi ed  i tedeschi l’hanno accolto  benissimo.  In  Italia la  musica tedeesca non sta molto sulla pelle, a mia impressione.  Quando  dirigo qui gli  autori tedeschi,  il  mio sforzo è di inserire il pubblico nella problematica che sostanzia la partitura, che determi­na  la  struttura,   cui  partecipa  ogni nozione e connessione di tempo  e timbro. Cerco di eseguire a mio modo,  ma  anche  memore  della   lezione   di Furtwaengler,   che   esasperava   questa logica  in  maniera  quasi didattica.   lo non dirigo a freddo; credo nell’intuito, nell’immersione nel suono, nell’irrazio­nalità se di irrazionalità si può parlare, nelle scelte intuitive. Ma parto da un’analisi. Nel Requiem tedesco, av­verto nettamente due mondi. Uno è la visione umana: introspezione, stupefa­zione, timbro che segna un carattere sospeso; calma nordica, mondo antropocentrico. L’altro è la parte luterana: scattano procedimenti automatici con­ trappuntistici, antichi: appunto perché automatici non insinceri, ma determi­nistici, drammatici.

– Analizzare. E se ne esce un’esecuzione intellettualistica? Voglio dire, non senza partecipazione, ma la cui comprensio­ne rimanda   ad   una   conoscenza  di elmenti  riscontrati,  allusi?

Senta,  io sono intelligente.  So  che una mia  interpretazione  non  lascerà  ma tutti soddisfatti, di  regola.  Non dirigo per  far  contenti  tutti,  dirigo  per  proporre delle scelte. L’analisi  mi  serve per capire, per ampliare,  per  entrare nel processo compositivo. Poi, scelgo. Non credo d’essere  un  direttore  di quelli che fanno  sentire  passo  a passo il peso dell’analisi. Presto dirigerò la Nona di Mahler, un autore che sento e che  mi  riconoscono  congeniale.  La mia preoccupazione è soprattutto so­stenere il primo tempo: dare all’architettura  complessa  il  suo  spazio vitale. Non voglio allineare idee, voglio diri­gere musica. A volte le mie scelte sono discutibili: per esempio, nel Requiem che fra poco sentirà, considero il “pia­nissimo” iniziale dei violoncelli non un mormorio, ma un suono già corposo, anche se col colore del pianissimo. La ragione è che le pause devono venire nette, il suono deve morire nel  silen­zio, ma non confondersi con  quello  nella percezione uditiva. Qualcuno ha detto, scherzando, che in questo modo qualche volta baro,  nel  mio  desiderio di essere fedele alle intenzioni per cui l’autore ha scritto. Naturalmente non è vero: barerei se per confondere le idee sporcassi il bianco,  anziché fare nero:  se faccia nero, invece, è nero: ma non grigio. È anche un mondo di evidenze. che  nasce dall’opera.

– Dunque impulsivo, e italiano, an­che… L’abbiamo sentito nel disco di Nabucco, così irruento e senza alcuna pretesa di distinguere le cose degne dalle impurità, tutto prendendo come forte,  e vero.

Ah, ma Verdi è così. Si sente la violenza delle cose della campagna. È prepo­tente, elementare.  Non  va  dunque preso di potenza, ma  di  prepotenza. Non c’è niente da  nascondere.  Era anche un visionario arcaico, aveva dentro tante immagini. Le trombe non erano soltanto nella  sua  memoria  i moti del quarantotto, il Risorgimento; erano anche umori di vita, per  esem­pio. Penso alla tromba quando il coro riprende il Lacrimosa, nel Dies  Irae: quel senso aspro di carri che passano. Non c’è da  sublimare,  gli ottoni hanno un loro peso, le immagini anche. Mi è stato utile Mahler anche per capire questo. Non c’è alcuna ragione  di mutare le proporzioni e le scelte del­l’autore, non ci sono gerarchie  estra­nee all’ordine in cui ha disposto le cose il compositore. Adesso al Maggio Musicale Fiorentino dirigerò il Rigoletto. Un’opera che inseguivo da anni: credo d’avere anche il regista giusto, il nome non è ancora da pubblicare. Opera sporca di passioni ibride che si giustifi­cano con la morale. Opera in cui gli affetti  compaiono  sotto  maschere:  a che cosa credere? Opera che va individuata di colpo o mai più.

Ma preme il Requiem. Fra mezz’ora, Sinopoli sarà sul podio nel teatro Morlacchi, e i suoi problemi andranno dalle sintesi più ampie di civiltà al dettaglio importante che lo cruccia, adattare il gesto di ogni esecutore abituato all’acustica secca dell’Audito­rium di Santa Cecilia al caldo e riso­nante riverbero della sala perugina. Ingenuo o abile, furbo  e  ambizioso certo ma anche apertamente, avrà da misurarsi con le innumerevoli  prove della verità che ha a sua disposizione, amato tormento di  ogni  artista:  in teatro, nella musica, non c’è discorso esterno, non c’è intenzione, velleità o illusione  che  valga  a rinviarle. Ancora due domande, in fretta, dove­rose. Una buona, una cattiva. Prima la buona. Pare che la Philharmonia Or­chestra non abbia risentito con uno shock del passaggio fra direttori così diversi, da Muti a  lei. Come  mai?

Non aveva nemmeno risentito negati­ vamente del passaggio da Klemperer a Muti. È un’orchestra con una grande storia, abituata ad una grande disponi­bilità. Muti ha portato una sua perso­nalità, ed anche un suo repertorio; quando ha preso in mano l’orchestra, ormai     Klemperer era fisicamente un’ombra; credo che Muti sia stato il toccasana. Adesso, io ho altri metodi, altra personalità; ed anche faccio un altro repertorio, perché amo soprattut­to eseguire gli autori problematici del Novecento storico e del tardo sinfoni­smo tedesco.  Spero di mantenere alto il prestigio dell’orchestra, con cui ho un’ottima collaborazione.

– La cattiva. Lei dà a volte,  anche  nelle interviste, giudizi cauti o caustici sui colleghi.  Come mai?

Dipende se le domande che mi provo­cano sono caute o caustiche.·

Bravissimo, mi sfugge detto. Basta così. S’è abbassata la luce, ormai  la sala è una specie di crepuscolo dorato. Ci alziamo, ci stringiamo la mano, da domani probabilmente ci daremo del tu. Mentre raggiungo la porta, vedo Silvia che indica un luogo illuminato in cui sostare, ad occhio di fotografo, dietro gli schienali delle eleganti pol­trone chiare. Paziente, Sinopoli lo raggiunge. M’allontano, ma faccio in tempo a scorgere che Silvia con pre­mura registica sta spostando qualcosa. Sono già in corridoio, quando m’arri­va la voce del maestro:

La ringrazio. Confesso, mi dà sempre fastidio aver delle poltrone davanti al posto  dove  sono io.

 

di Lorenzo Arruga