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Come Mr. Hide, dotato di doppia vita, anzi tripla: musicista, medico e archelogo. Ormai prossimo alla laurea in egittologia, sono ormai tanti i viaggi di studio cui Sinopoli, allievo di archeologi quali Matthiae e Roccati, ha partecipato. Il suo primo Egitto risale a otto anni fa, da allora vi è tornato con cadenze sempre più ravvicinate. E adesso gli brillano gli occhi pensando a una nuova partenza per la valle dei Templi, «è un progetto che dovrebbe nascere nel ’98».
Ma come, Maestro, mentre tutti disertano l’Egitto, lei smania per tornare proprio lì?
«Gli integralisti non sono interessati agli studiosi, puntano alle azioni spettacolari». Nessun brivido, quindi? «Un anno fa, per raggiungere Abbido, centro importante del culto osiriaco, luogo magico, invaso da acque terapeutiche per il corpo e l’anima, dovetti essere scortato da poliziotti armati. Mi sembrò una profanazione». Sulla via dell’Egitto si è incamminato quando smise di comporre: «come se la ricerca che facevo con le note fosse stata sostituita da un altro tipo di indagine».
L’occasione fu il soggiorno in Israele, dove Sinopoli era alla guida della Israel Philharmonic. Un contatto ravvicinato col mondo mediorientale.
«A colpirmi fu soprattutto la luce mediterranea. Dopo sette anni passati sotto il pallido sole di Vienna, quel sole così violento, assoluto, mi travolse».
E della civiltà egizia il sole è il cardine anche teologico.
«Ra, il dio del Sole, è in rapporto continuo, creativo, con Osiris, il dio della Morte. Una circolarità che racchiude il massimo della luce e il massimo delle tenebre. Il Sole passa dodici ore con i vivi e dodici con i morti. In mezzo, l’ambiguità del tramonto, quando tutto sembra finire e tutto ricomincia. È il concetto artemideo di confine, il limite tra selva e polis, luce e ombra, vita e morte. Sto realizzando per la tv tedesca ‘I due occhi di Horus’, un film-documento, un viaggio nella mitologia e iconografia della luna e del sole che collego alla ‘Notte trasfigurata’ di Schönberg e alle ‘Metamorfosi’ di Strauss, nate sul concetto di rovina. Quel che vorrei mostrare è il sole che anima le rovine».
Che cosa pensa di Christian Jacq, l’egittologo autore della fluviale saga del faraone Ramses?
«Che fa bene il suo mestiere di accalappiatore di lettori. I suoi libri hanno la stessa funzione delle telenovele: fanno sognare gli smaniosi di new age. Ma non dire i che siano un incentivo a studi seri sulla materia. Comunque, sono scelte di vita. Studiosi come Roccati o Donadoni non lo farebbero mai».
Ramses a parte, l’Egittomania non è certo una novità. I suoi momenti di gloria, ricorda Sinopoli, sono stati segnati dalle incisioni del Piranesi, dai fasti kitsch dell’epoca napoleonica, dalle influenze lasciate, all’inizio di questo secolo, sullo Jugendstil.
«Adesso però, a calamitare tanto interesse non sono tanto i fattori estetici. La gente è attratta dall’Egitto per la sua indecifrabilità. In un’epoca dominata dalla tecnologia, c’è bisogno di porsi un’altra volta di fronte al mistero. E i grandi misteri sono sempre due: la vita e la morte. Per affrontarli la razionalità è elusa, servono altre strade».
Ma sono stati i geroglifici a sedurre Sinopoli.
«Sono una cosmogenesi, un modo di scrivere il mondo riservato a una stretta cerchia, così come a una stretta cerchia è riservata la conoscenza. L’importante era che fossero visti prima ancora che compresi. La stessa cosa si potrebbe dire per la musica. Sono davvero pochi quelli che la ascoltano decifrandone le leggi. Eppure per goderla non ce n’è bisogno».