Un ragazzo passeggia alle Zattere, discute di musica e politica con il «compositore rosso» Luigi Nono, ma tiene gli occhi fissi su un vecchio dallo sguardo fiammeggiante, che passa lì accanto perché lì abita, e che nessuno riconosce anche se è forse l’Omero del nostro secolo: il poeta Ezra Pound, reduce da 13 anni di manicomio criminale a Washington dov’è stato rinchiuso perché «spiritualmente confuso» dopo l’adesione al fascismo. Il ragazzo si concede poi una pausa solitaria al caffè, per studiare, alternando letture considerate al limite della slogatura mentale «data l’inconciliabilità». Così, passa dalla reinterpretazione marxista di Lukács all’antimodernismo neopagano di Evola, dall’irrazionalismo pessimista di Schopenhauer all’esoterismo orientale di Guénon. Mette cioè temerariamente insieme testi «sacri» e «profani», secondo i giudizi che le caste intellettuali «le oneste contraddizioni» d’un pensatore che, formatosi su Marx, «supera il materialismo e la pietrificazione del potere dello Stato, per riflettere su cose antiche e messianiche, mettendo l’Uomo al centro di tutto». Insomma: ci ritrova dentro il «canto venerando di un sentimento e di una visione della storia che oggi sembrano nell’angolo». E di quel «testimone e aruspice dei terribili decenni di rivoluzioni, guerre e immani totalitarismi che ponevano il mondo alla mercè del Leviatano», Sinopoli discute con gli amici, quando periodicamente torna a Venezia. Primo fra tutti, Luigi Nono, «un gigante-bambino che sognava, proprio come Bloch, una grande umanità, e che solo per scelta di carattere aveva abbracciato la soluzione politica della lotta di piazza. Una scelta che coincideva addirittura con la sua fisicità (lui, vigoroso persino nel parlare, respirare, camminare)… fisicità che sgorgava con violenza nelle sue opere ‘di propaganda’. Gli confidavo le mie scoperte, e a volte venivo ammonito: ‘Bepi, sta’ attento, sta’ attento’. Ma erano scontri senza meschinità, perché a Nono-Parsifal era in fondo estranea la logica della cultura al servizio del potere, ciò che è stato fra le cose più ignobili del comunismo. Diciamo che sentiva l’affettuoso ‘dovere’ di sconsigliarmi avventure intellettuali che gli parevano rischiose. L’ho molto amato, senza tuttavia farmene ideologicamente condizionare».
Musica e storia delle religioni, filosofia, società, politica. Ecco, per anni, il pane quotidiano di Sinopoli. Poesia, poca:
«Solo i ‘Cantos’ di Pound, l’Eliot dei ‘Quattro Quartetti’ ma senza entusiasmi… e tutto Dante».
Romanzi, ancora meno: «Mi incuriosivano i mitteleuropei e i russi, oltre a Proust, Borges e Kafka». Ed è su Borges e Kafka che il ragazzo ormai quasi pronto a impugnare la bacchetta da direttore d’orchestra entra in collisione con un altro suo interlocutore: il musicologo Mario Bortolotto, destinato a diventare suo grande amico («anche se ci vediamo poco»). «Leggevo, per sfida, quel che pure lui leggeva. E gliene parlavo. Una volta, a Siena, gli dissi che stavo scoprendo Borges e mi sentii liquidare con un: ‘Letture giovanili, come Kafka d’altronde’. Mi offesi, avevo vent’anni ma non ero tipo da ‘letture giovanili’. Replicai: ‘E l’estetica di Hegel, è una lettura giovanile?’. Risposta: ‘Dipende da chi la legge’. E io: ‘No, dipende dallo “stato” di chi la legge, non da “chi” la legge. Mario ci rise su… non ha mai saputo il peso che quelle piccole diatribe hanno avuto nella mia formazione».
Oggi che il suo tempo è dominato dalla musica (un’arte che soffre il limite, come lui stesso dice, «di non porre in sé questioni di gnosi, di conoscenza, ma solo di espressività»), Sinopoli mantiene con i libri «un rapporto fortissimo». E non solo perché continua a leggere molto, ma forse anche per certi studi d’archeologia oggetto di una nuova laurea, alla vigilia dei 52 anni. Un impegno corroborato da varie spedizioni in Medio Oriente, e che gli ha fatto riqualificare il valore della parola scritta, dopo certe scoperte ‘sul campo’. Racconta, divagando: «È una meravigliosa sintesi del mondo, la prima parola scritta, l’ideogramma. Tanto che papiri e tavolette d’argilla che la contenevano erano considerati sacri, dei templi. Giusto come quei luoghi di culto, i templi veri, che ne erano ornati, all’alba dell’uomo». Sacralità e magia, dice, «che valgono pure per la musica: per esistere, deve anch’essa ‘entrare’ in una scrittura, da cui poi ‘esce’ col prodigio del fenomeno sonoro. Un salto nel quale è in gioco la mediazione dell’orchestra, e che è dunque un fatto meramente espressivo». Ciò che «in letteratura non esiste», aggiunge, allargando le braccia con movimento circolare, come quando dirige Mahler: «Perché in quel caso tu, lettore, scegli la scrittura, la rendi liquida, e a quel punto questa ‘acqua’ ti entra dentro e allora ti ci rispecchi, rivivendo l’intero momento della conoscenza». Il fatto che quei libri-templi siano destinati a evaporare nei circuiti d’un computer (sta per avvenire nel laboratorio di Nicholas Negroponte, al Mit di Boston) avvilisce Sinopoli. «Ma non per un’affezione feticistica agli antichi incunaboli o alle preziosità bibliografiche derivate da Gutenberg e Manuzio. Quanto perché, nei futuribili ‘templi’ di plastica si smarrirà il carattere sacrale e religioso della parola scritta». E si spiega, carezzandosi la gran barba, con una confidenza: «La mia prima biblioteca la misi insieme acquistando a rate i classici Einaudi. Li pagavo col compenso che mi dava il parroco di San Stae, perché suonassi l’organo. Ora, benché povere edizioni economiche, quei volumi erano anch’essi dei templi. Pagati, nel mio caso, dall’officiante di un tempio veneziano. Tutto si tiene, no? Per il futuro comunque, come sosteneva Bloch, bisogna continuare a sperare malgrado la disperazione. E, anzi, proprio a causa di essa. »