Parsifal? E’ come un geroglifico

MONTAGNE scriveva le sue massime preferite sulle travi del soffitto della sua biblioteca per averle sempre presenti. Il maestro Giuseppe Sinopoli le scrive su pezzi di carta e le attacca alle porte del suo studio.
Quelle del grande umanista francese (che ogni mattina era svegliato con un delicato brano musicale) erano in greco, in latino o in francese. Pure quelle di Sinopoli sono in greco, latino e france­se, ma anche in tedesco, inglese e italiano. E nei geroglifici dell’antica scrittura egizia, la settima lingua da lui padroneggiata. Gli scaffali delle sue case di Roma, Venezia, Lipari, Dresda, sono stipati di libri che parlano tutti questi idiomi.
Nel suo studio, (che è anche uno straordinario museo di preziose antichità vincolate dallo Stato italiano) il personaggio si presenta attraverso le sue sentenze preferite. «Post tenebras spero lucem», recita una strisciolina di carta attaccata con lo scotch. Ma già alla seconda sentenza, le “tenebras” avvolgono il lettore: è una breve serie di geroglifici manoscritti. E’ Sinopoli a tradurli: «Non mettere limiti all’opera d’arte». Niente male come slogan libertario, se si pen­sa che fu scritto qualche migliaio d’anni fa nell’Egitto dei Faraoni.

Sembra proprio che Sinopoli non possa mettere limiti al proprio desiderio di conoscenza. E’ appena uscito presso l’editore Marsi­lio “Aristaios”, l’imponente catalogo della collezione Sinopoli di materiali egei pre-classici, greci, etruschi e magnogreci (vedi scheda a pag. 80). E il Sinopoli che dà il nome alla straordinaria raccolta è proprio il celebre direttore d’orchestra, Chefdirigent della Staatskapelle di Dresda e da 12anni direttore ospite del festi­val wagneriano di Bayreuth. Già laureato in Medicina, Sinopoli naviga verso la laurea in Archeologia, alternando alla bacchetta di maestro la vanga del ricercatore. Ma mentre per impugnare la pri­ma riceve lauti compensi, per sudare con la seconda deve mette­re mano al portafogli, finanziando scavi importanti. «La mano al portafogli la metto ancora più spesso per acquistare pezzi da galleristi specializzati», sospira il barbuto maestro, facendo vagare lo sguardo sui reperti plurimillenari provenienti da Micene e da Creta, dall’Egitto dei Faraoni e dalla Mesopotamia, illuminati con sapienza in teche ricavate nel muro: brocche, pissidi, statuette, anfore, mar­ mi con iscrizioni di geroglifici… E precisa: «Ci sono due tipi di col­lezionismo: quello che è segno di potere ed esibizione di ricchezza e quello che è invece un discorso culturale, una ricerca lungo un filo prestabilito. In questo secondo caso non è tanto l’oggetto in sé che fa partire l’interesse, ma il periodo della cultura che l’ha prodotto, da cui proviene e di cui è espressione. I miei galleristi sanno bene che io non colleziono oggetti, ma idee. E sanno quan­do e perché chiamarmi. E’ soprattutto per questo, e non per le somme che vi ho speso, che la mia collezione ha un valore mon­diale, è degna dell’importante pubblicazione appena apparsa ed è vincolata dallo Stato italiano. Essa è in sostanza un museo di cui, con l’aiuto di sofisticati sistemi antifurto, sono io l’unico guardia­no e a cui ammetto solo studiosi di alto profilo».

Questo umanista di una specie che sembrava estinta dai tempi del Rinascimento nasce da una famiglia medio-borghese in cui nessuno aveva dimostrato particolari doti d’intellettuale. «Mio padre, dirigente di una compagnia assicurativa, voleva “un avve­nire sicuro” per me», racconta Sinopoli. «Per accontentarlo mi sonolaureato in Medicina nel 1971 a Venezia, mia città natale. Ma poi ho subito lasciato di stucco lui e mia madre, insegnante di Matematica, annunciando che con lo stetoscopio al collo non mi avrebbero mai visto. Partii per Vienna, dove all’Accademia di Musica avrei continuato i miei studi di composizione iniziati pri­vatamente a Venezia con Franco Donatoni».

Perché questo salto dall’arte medica alla musica? «La musica è il mio principale mezzo di espressione. Se non avessi la musica potrei fare a meno di comunicare con gli uomini. Potrei vivere benissimo a Lipari, studiando, coltivando gli alberi e dividendo la vita con gente semplicissima. Per me la musica è il momento di contatto, in cui si esprimono e si comunicano, tutta una serie di visioni del mondo. Il mio primo impatto con la musica l’ho avuto attorno ai dieci annia Messina, dove mio padre era stato trasferi­to. Fui stregato dalle bande che seguivano i funerali. Un primo approccio simile, come venni a sapere molti anni più tardi, a quel­lo di Gustav Mahler, un musicista che tanta importanza doveva poi avere nella mia carriera di direttore d’orchestra. In quella terra dove il Cristianesimo sembra fondersi con la tragedia greca,il suono degli ottoni, dei clarinetti, il lento passo di marcia scandito dai tamburi, al seguito delle donne in lacrime, avvolte nei veli del lut­to, prefiche fuori del tempo, mi catturò. Nei quattro anni che vis­si a Messina, non mancai a una cerimonia funebre. Mi lasciavo tra­scinare da quel solenne procedere come in uno stato di trance. Allora certamente non ne ero cosciente, ma quell’avanzare verso la trascendenza, verso il mistero di un’altra vita, doveva diventa­re l’essema della mia vita di intellettuale, di pellegrino della cul­tura, di ricercatore del sacro Graal».

A VIENNA SINOPOLI STUDIA COMPOSIZIONE  E DIRE­zione d’orchestra, filosofia, letteratura. Conosce la cultura tedesca e mitteleuropea. Si imbeve di Richard Wagner (“Parsifal” rimane l’opera della sua vita, «pur con tutte le contraddizioni e ambiguità»), di Gustav Mahler, di Sigmund Freud, di Cari G. Jung, ma anche di Friedrich W. Nietzsche (è Nietzsche che, a lui veneziano, apre il mondo della civiltà medi­terranea, con “Nascita della tragedia”), e di Eraclito, i cui “Fram­menti”sono ancora ilsuo”livre de chevet”, il libro che non si fini­sce mai di leggere, e attraverso i pre-socratici approda infine alle grandi civiltà del vicino Oriente.

Sono sei anni di studi rigorosi. Dieci, dodici ore al giorno inter­rotte soltanto dalle lezioni di composizione e direzione d’orchestra all’Accademia con il maestro-amico Hans Swarowski e da qualche rara uscita sentimentale «meramente igienico-metabolica». Swarowski, un direttore d’orchestra che aveva studiato con Amold Schoenberg, Anton Weben e Richard Strauss e che ha avuto allie­vi prestigiosi come Zubin Metha e Claudio Abbado,è molto più che un maestro per il giovane Sinopoli. E’ il guru carismatico che gli dà la forza di portare a termine il titanico programma di studio.

Ma l’umanista Sinopoli non si limita ad assorbire quella valanga di cultura mitteleuropea attraverso il filtro della creazione musica­le e della direzione d’orchestra. Intensificando gli studi, si addentra nei labirinti del rapporto tra espressione e conoscenza. E’ in questo travaglio che scatta la passione per il significato del segno, sia questo la nota sul pentagramma o il geroglifico (etimo: sacra incisione) dell’antica scrittura egizia.

«La musica è l’espressione. Lo studio dell’archeologia è la conoscenza. E la conoscenza è un continuo procedere verso un traguardo che rimane comun­que irraggiungibile e irrinuncia­bile. Quell’urgenza del procede­re era entrata in me già negli anni dell’adolescenza, quando, come romantico viandante mi accodavo ai cortei funebri a Messina. Da un punto di vista psicoanalitico, ilcorteo funebre è l’oggetto che si fissa e per cui poi si scopre sono state fatte scelte apparentemente incoe­renti, ma in realtà rigorosamen­te conseguenti. La lingua egziana (adesso lo so,ma a Vienna era solo un’intuizione) si muove a livelli polivalenti tra significa­to e significante. In essa, il rap­porto tra significato e signifi­cante non è unidirezionale come nella cultura occidentale moderna,  ma  avviene a vari livelli, a diversi strati di complessità. Per cui ci sono situazioni fre­quenti di rebus, di labirinti iniziatici. Questo è l’aspetto che mi ha molto affascinato e credo che sia per questo che il futuro della mia vita, dopo la laurea in Archeologia, io lo vedo in un approfondimento della lingua egiziana più che nell’attività musicale. L’archeo­logia è l’altra metà del mio essere. Ciò che ho iniziato con la com­posizione e sto continuando con l’egittologia non è che la stessa ricerca: la ricerca del mistero nel segno».

Finalmente tutto era chiaro nella mente del giovane maestro che nel frattempo aveva vinto una borsa di studio come direttore d’orchestra a Berlino. Si iscrisse alla facoltà di Archeologia di Venezia perché avvertì  la necessità che il suo procedere nella musica avvenisse di pari passo a quello nell’archeologia. «Ma quando vidi il programma di studio di Egittologia con il piano di apprendimento della lingua egiziana sviluppato su tre anni mi sen­tii perso, confessa Sinopoli. «Pensai che non potevo impiegare tre anni della mia esistenza a tentare di leggere questi geroglifici impossibili. Fu solo trovando una perfetta identificazione nel mio animo tra comporre musica e studiare i geroglifici che trovai la forza di iniziare i corsi. E quell’identificazione tra note e geroglifici è ancora perfettamente in me oggi».

Quando un ragazzo liceale fa la versione di greco in classe diret­tamente in latino in 15 minuti e prende nove, non ci si deve trop­po meravigliare se da grande non si sente sufficientemente grati­ficato da una laurea in Medicina o dall’essere uno dei più famosi direttori d’orchestra del mondo e cerchl l’altra metà di se stesso in una delle discipline più complesse dello scibile umano. Ma die­tro la maschera dello studioso, chi è l’uomo Sinopoli?

Una persona semplice, dalla vita spartana, alieno da ogni fre­quentazione salottiera, raramente aperto a confidenze giornalisti­che. Un uomo che si è ritrovato in lacrime alla notizia della Fenice divorata dal fuoco: «Era il teatro dove sono nato alla musica. Dove sono state eseguite le prime composizioni. Dove ho esordito come direttore d’orchestra…». Alle 7,30 del mattino è già al suo tavolo di lavoro. Come direttore d’orchestra è tanto apprezzato quanto temuto dai professori d’orchestra di mezzofondo. L’aggetivo a cui tiene di più è “serio”: << Faccio una cosa solo quando sono sicuro di poterla fare bene. Quando due anni fa mi hanno proposto la direzione del Teatro dell’Opera di Roma, ho precisato le condizioni minime necessarie per farne un teatro competitivo in cinque anni. Non mi sono state garantite e me ne sono tornato a Dresda>>.

Sarà forse grazie a questo solido rapporto tra Sinopoli e l’orchestra di Dresda che potremmo riascoltare un Sinopoli compositore. L’orchestra gli ha infatti commissionato un grande “Requiem” da eseguire nel concerto annuale di commemorazione del bombardamento che rase letteralmente al suolo la città nell’ultimo conflitto mondiale. Come atto d’amore per la sua orchestra, Sinopoli sta considerando la possibilità di accettare la proposta. La scelta del testo cadrebbe su alcuni versi scritti 5.000 anni fa in caratteri cuneiformi per piangere la distruzione della biblica città di Ur, patria di Abramo.

Sinopoli è ancheun marito affettuoso che non ha tem­po per leggere i giornali, ma lo trova per fare la spesa tutte le mattine con la moglie al mercato.­ E’ un padre attento a seguire gli studi dei due figli di 10 e 13 anni.

Sinopoli, dal 24 al 27 febbraio, è a Roma per diri­gere l’orchestra di Santa Cecilia con un programma strawinskiano (Sinfonia dei Salmì).  Anche  in quella occasione i più attenti in platea noteranno un leggero rigonfiamento nella tasca destra della giacca del maestro: è il segno della presenza di Hammurabi, il re pastore babilonese. << Porto sempre con me, anche quando dirigo, questo idioletto scolpito da mani abili di artista oltre quattromila anni fa. Rappresenta un re che stringe tra le braccia un agnello.  Diventerà il Re Pastore dei cristiani. Non è superstizione, ma amore>>. Chi volesse osservare Sinopoli all’opera in giugno. dovrebbe andare in Siria, per vederlo affondare la vanga dell’archeologo: in quel mese sarà infatti impegnato in uno scavo da lu stesso sponsorizzato.

SULL A  SCRIVANIA  DELLO STUDI O HA DA  ANNI LA foto di un monaco buddista ultranovantenne. <<Non cono­sco nemmeno il suo nome. L’ho visto per pochi minuti.Ma non lo dimenticherò mai», racconta. «Ero a Tokyo con la Filarmonica di Vienna nel 1992. Vado a visitarlo su consiglio di amici. Gli chiedo quante ore dedica ogni giorno alla meditazione. Si alza di scatto e sparisce dietro una tenda. Dopo otto infiniti minuti di silenzio angosciante, torturato dalla paura di averlo offe­so con una domanda inopportuna, il monaco rientrae sorridendo indica un grande vaso di fiori gialli.”La tua meravigliosa orchestra è questo bellissimo vaso di fio­ri gialli”. Poi, alza il dito verso un altro vaso, piccolo, con un solo fiore giallo, e aggiunge: “Il Giappone è come questo meraviglioso fiore giallo. Il grande vaso dei fiori è meraviglioso, ma anche il fiore solitario è meraviglioso”. E tacque. Non mi aveva detto quante ore meditava al giorno, ma mi ave­va espresso il risultato delle meditazioni>>.

Di seralo studio di Sinopoli è illuminato soltanto dalle picco­le luci che fanno risaltare la bel­lezza assoluta, oltre ogni este­tica, delle opere esposte nelle teche. Impossibile non lasciarsi sopraffare dalla sensazione di mistero sacro e di assenza del tempo. Il passato e il pre­sente sono lì con noi simulta­neamente. «Questi oggetti sono importanti per l’aura che da essi emana» dice Sinopoli a voce bassa, quasi parlasse a se stesso. «Qui c’è qualcosa che viene dall’artefice, un fluido che parte dall’opera della mano e diventa messaggio. Nell’anti­co cerco l’ annullamento del concetto di linearità e dell’irre­versibilità del tempo». «Panta rei» (tutto scorre), sosteneva l’amatoEraclito «… e tuttopuò tornare», potrebbe completare il suo devoto “discepolo” Sino­poli. Ma forse, alle tante domande tese a scoprire le ragioni della sua fame di cono­scenza, Sinopoli avrebbe potu­to ri spondere con un breve frammento del “suo” Eraclito:
«Ho indagato me stesso».

Di Silvio Persanti