PARSIFAL DI RICHARD WAGNER

PARSIFAL DI RICHARD WAGNER

La definizione di Parsifal quale «azione scenica sacra» e la presenza in esso di alcuni elementi mutuati dai riti cristiani (insieme con altri elementi affatto eterogenei) hanno creato l’equivoco, accreditato in primo luogo e con probabile malafede da Friedrich Nietzsche, che l’ultima partitura di Wagner sia una sorta di cerimonia prossima ai contenuti della fede religiosa, se non proprio coincidente con essi: ciò che non è, non solo perchè un’analisi del testo poetico conduce a riconoscere il complesso sincretismo delle tradizioni esoteriche che vi si stipano; non solo perchè gli scritti teorici di Wagner, e in specie dell’ultimo Wagner di «Religione e arte», dissipano gli equivoci; ma soprattutto perchè la musica di «Parsifal», con la sua precisa configurazione semantica, è portatrice di significati che al sistema (sia concesso chiamarlo così, sulla scorta di Karl Lowith) della dottrina nietzscheana, e quindi ai nichilismi del nostro secolo, si apparentano: perdita dei valori, morte di Dio, mito sovrumanistico, concezione del tempo non lineare e progressiva ma sferica. Di tali significati è parsa addirittura un’esplicitazione la lettura che dell’opera wagneriana ha compiuto l’altra sera a Roma Giuseppe Sinopoli, che ha diretto «Parsifal» in forma di concerto all’Accademia di Santa Cecilia: sì che diremmo la sua un’operazione dimostrativa, non fosse la risoluzione estetica ancor più stupefacente dell’acribia intellettuale palesata dal direttore d’orchestra. L’apparato celebrativo del capolavoro, ripulito di quell’aura estetistica le cui conseguenze storiche si dànno soprattutto nell’ambito del decadentismo francese, conserva con Sinopoli la sua imponenza; ma proprio il grandeggiare dei gesti e la disciplina marziale finalmente riacquisita (dopo tante interpretazioni edulcorate) sembrano alludere al senso del vuoto, a un lutto irrimediabile, all’angoscia metafisica che percorre la partitura e si addensa in improvvise risacche di inerzia ritmica e sonora, soprattutto nelle zone dove Kundry è protagonista: lì Sinopoli ricava colori ammorbati e illividiti; lì sospende l’impulso agogico e lascia lievitare una sorta di stato catatonico: davvero gli dèi sono fuggiti dal mondo, ogni valore è disperso; e tanto più impressionante pare l’affermazione sovrumanistica che nei finali del primo e del terzo atto, a partire dagli Interludi eppoi con i cori maschili, si illustra. Diversi parametri concorrono al risultato. Un colore orchestrale che rarissimamente concede sofficità e soavità, e piuttosto si impietrisce in una cupa risonanza di duro metallo; un fraseggio percorso da tensione aggressiva anche nei momenti di consueto abbandono, come l’«Incantesimo del venerdì santo», e fatte salve le cavità deserte, le stagnazioni di cui si diceva; un sensibilissimo, lancinante rilievo dell’inquietudine armonica allignante non solo nel second’atto (si pensi al Preludio del terzo!), e della poliritmìa che spesso vi si abbina; l’assenza quasi generalizzata di dolcezza nelle modalità dell’emissione del suono: laddove si dia, si tratta di una dolcezza malata e mortifera. È un Parsifal spietato: del ‘moderno’ vi si svelano avvisaglie lessicali che puntano alle ultime Sinfonie di Bruckner, il cui ‘fiammeggiante oro antico’ riconosciuto da Spengler è con Sinopoli anticipato in Wagner, e ancora più in là, alle forze psichiche orrifiche ed estreme che esploderanno in «Elektra», alla sismografia dell’inconscio che verrà tracciata in «Erwartung» di Schönberg. La ‘regìa sonora’ imposta dal direttore nel secondo atto è particolarmente originale, quasi sconcertante. Le scene delle fanciulle fiori smarriscono ogni vaporosità: le figurazioni in terzine degli archi, cui pure Wagner prescrive l’indicazione «zart» (tenero, delicato), anziché scivolare verso lo Jugendstil paiono concrescere e stratificarsi accumulando un’eccitazione febbrile, senza scampo, dissolta infine con l’apparire di Kundry. Allora le linfe del giardino fatato si scoprono iniettate di tabe, e la stupenda Berceuse ‘empoisonnèe’ della tentatrice può distendere le spire del suo ondeggiante ‘sei ottavi’. Ne fornisce il contrappeso la fortissima concitazione drammatica, al limite dell’espressionismo, cui l’atto si destina, con Sinopoli, nella sua metà seconda. […]

Francesco M. Colombo, Corriere della Sera, 8.4.1994