<< Ecco l’artista che il mondo intero ci invidia>>, scandiscono di solito, senza troppa fantasia, le didascalie del rotocalco, presentando le foto di un sorridente divo musicale ( o teatrale, o cinematografico, ecc.), preferibilmente attorniato dalla serena famigliola.
Nel caso di Giuseppe Sinopoli, direttore e compositore musicale di prima grandezza, l’invidia dev’essere, ahimè, completamente rovesciata: siamo noi a dover invidiare il mondo, perché questo maestro (che è nato a Venezia 37 anni fa) lo veniamo scoprendo gradualmente solo ora, quando ormai le migliori orchestre straniere se lo sono accaparrato (la London Philarmonia lo inserisce come direttore stabile per cinque anni, al posto di Muti, a partire dall’84) e le case discografi che hanno già ipotecato le sue future incisioni (sempre di cinque anni, dall’82, è il contratto che Sinopoli ha firmato con la Deutsche Grammophone). E via fuggendo: il prossimo 3 maggio Manon Lescaut al Covent Garden di Londra, nell’85 la Tosca al Metropolitan di New York, sempre nell’85 la Salomè di Strauss ad Amburgo, nell’86 Don Carlos all’Opera di Vienna, nell’86 La forza del destino all’Opera di Monaco. A noi, in definitiva, resta l’inaugurazione del Maggio Musicale Fiorentino (nell’84) con un Rigoletto e, forse, La forza del destino alla Scala, nell’87. È un peccato. Perché se è vero che l’ascesa di questo maestro ha avuto inizio in Germania (col Mac beth, a Berlino, nel’79) per poi spo starsi, con Mahler, negli Stati Uniti e in Inghilterra, è anche vero che le radici musicali di Sinopoli con l’Italia non sono recisamente troncate. «Ho un buon rapporto con l’orchestra della Rai di Torino», spiega, «dirigo una volta all’anno, per ragioni affettive, l’Orchestra del Teatro La Fenice, a Venezia, e poi c’è l’Orchestra di Santa Cecilia, a Roma, che è un grandissimo complesso: quella Nona di Mahler, diretta a Roma nel febbraio scorso, resta per me un incontro bellissimo, emozionante».
A Roma, Giuseppe Sinopoli cercherà casa entro 1 anno. Ugualmente dovrà preoccuparsi di trovare un alloggio a Londra. Al momento si divide fra Neumarkt, nell’Austria dei suoi studi («è il mio rifugio, un posto talmente bello»), e Venezia, dove le finestre del suo appartamento danno su uno dei campi più incantevoli del Sestiere di Dorsoduro. In questa casa veneziana c’è la giovane moglie Silvia (bionda, un amore a prima vista: lei suonava la celesta…) e il bambino Giovanni, di dieci mesi, che scruta con meticolosa attenzione la grande barba e i capelli scuri del padre che risponde alle domande.
Sinopoli, di lei si dice che è un antidivo fino in fondo. Detesta la mondanità e rifiuta perfino l’abito del direttore. Sembra che la Deutsche Grammophone abbia dovuto insistere parecchio per metterle il frac…
«È vero, ahimè. Ce l’hanno fatta, mi hanno messo il frac. Così com’è vero che detesto l’arroganza, la mondanità, il divismo tipico dei direttori. Mi sposto sempre con Silvia e Giovanni, non frequento mai un salotto, la sera, qui o a Neumarkt, amo incontrare i miei amici: che sono pochi, ma tutta gente con cui si può avere un rapporto».
Però, di fatto, lei una sua carriera se l’è costruita.
«Sì, ma non ho mai fatto piani, ho solo cercato di fare le cose meglio che potevo e questo ha coinciso con una carriera. Credo che il pubblico tenga più alla musica che alla vernice mondana. In fondo è un problema di libri letti…».
Pensa che questo suo rifiuto delle regole del gioco abbia influito sulla sua scarsa fortuna in Italia?
«Certo, io non sono mai stato al gioco. Non sono mai andato a trovare i grandi maestri, non ho mai avuto alcuna tessera di partito, anche se nel ’68 il mio allineamento ideologico con la sinistra fu netto. Diciamo che sono un indipendente di sinistra, ma non mi riconosco in alcun partito. Io faccio solo musica e non voglio fare altro».
Fare musica. Qual è, in questo senso, la funzione di un direttore?
«Quella di un mediatore culturale. Non professore, ma mediatore dei messaggi umani che ci sono nella partitura . Il messaggio umano è l’unica cosa che si recepisce. Altrimenti c’è il divismo, o ciò che Adorno chiamava “brandelli di melodie”».
Ma lei, una volta, parlò della musica come di «una questione di dettagli».
«È vero, il dettaglio è un momento che può passare inosservato, un momento anonimo per chi non lo vede, ma, per chi ha gli occhiali giusti, un momento focale che può gettare luci diverse e nuove prospettive su tutta la lettura. A me questo succede spessissimo con Brahms».
Non è tanto casuale che venga fuori Brahms...
«Già, e non solo lui. La questione del dettaglio è quella della provvisorietà. Provvisorio è ciò che fugge, e io amo e scelgo proprio gli autori che perdono molto e quindi danno modo di ricordare. La forza di ciò che si vive sta nel fatto che lo potremo ricordare. Allora Brahms , Schubert, Schumann, Bruckner, Berg… autori che si confrontano continuamente con la perdita, con ciò che sfugge a loro stessi, in definitiva con la morte. Se uno ha il senso della perdita, è forzatamente un compositore della memoria».
Ma lo spazio che resta alla composizione, in tal caso, è ridottissimo.
«Infatti. Io credo che la musica duri un giorno: dopo Brahms è ini ziato il tramonto, ora ci troviamo verso le undici e mezzo di sera . Non sarà una tragedia se poi verrà un altro giorno. Nel frattempo resta l’interpretazione… Cioè la memoria».
A parte la memoria, e i suoi autori, lei si è sempre opposto alla registrazione di pezzi facili. Perché?
«Senza essere un puro folle, non amo i brani commerciali. È ovvio: ci si deve confrontare con il problema della pubblicizzazione, se no si resta a casa. Tuttavia credo che si possa avere un vero rispetto del pubblico fornendo prodotti seri fatti in modo serio. Scriabin non si vende come Beethoven. Ma se Scriabin viene eseguito in modo perfetto è un investimento: da un lato si fa fare un passo avanti al mercato, dall’altro si dà fiducia al pubblico».
Mi dica che ne pensa dei nobili furori del loggione, dei tanti fischi di questi ultimi giorni.
«I loggionisti? Sono dalla loro parte. E semplicemente perché io a Vienna ero uno di loro. Quando, nell’80, il rappresentante dell’orchestra mi presentò ai suonatori, io ammisi candidamente che era la prima volta che scendevo in platea. Fra i loggionisti ci sono soprattutto persone che non hanno i soldi per la platea . Ma è tutta gente che ha un rapporto drammatico con la musica: studenti di conservatorio, musicisti mancati, futuri direttori. Gente che urla, ma solo perché ne capisce di più di musica, perché ha con la musica un rapporto più viscerale. Certo conosco anche i limiti del loggione, la sua influenzabilità emotiva, le mance, la claque… I guai del loggione, insomma, che vanno risolti e non strumentalizzati per fare una politica antiloggionistica come quella che si fa oggi in Italia».
Mi consenta una domanda di carattere generale. Lei si è laureato in medicina, con una tesi su antropologia e psichiatria, quindi sa benissimo cos’è un «io diviso». Pensi un po’ a se stesso. Medico e musicista, direttore e compositore (la sua opera, «Lou Salomè», ha riscosso un enorme successo a Monaco due anni fa), repertorio operistico e repertorio sinfonico, la casa a Roma e la casa a Londra … Capisce? «Vede, mio padre è siciliano, e io credo che il nucleo del mio modo di vivere si concentri in una natura molto emozionale ed emotiva, che ha un’estrema paura di tutto ciò che passa e finisce. D’altra parte, sono costantemente portato a controllare questa emotività, sia perché la ritengo transitoria, sia perché credo che conti molto più il “come” del “cosa”. Ecco che le mie contraddizioni, sotto questa luce, sono solo apparenti. Se punti sul “come” e non sul “cosa”, puoi fare Verdi e Brahms, medicina e musica, comporre e dirigere, perché la chiave è sempre nella tua mano e non nella toppa dell’armadio».
Si mormora che lei abbia con le sue orchestre un approccio piutto· sto autoritario…
«No, niente affatto. Posso essere intransigente, ma non tanto con gli orchestrali quanto con un’idea del la musica che voglio realizzare. D’altra parte, so che se quest’idea non si realizza la colpa è mia».
Quali sono le migliori orchestre del mondo a suo avviso?
«Tre grandi in Europa: la Berliner Philarmoniker, la Wiener Philarmoniker, la Philarmonia di Londra. In America, poi, quella di Chicago, di New York, di Boston, di Los Angeles».
E il direttore che ama di più?
«Kleiber. Perché non fa giochi, ma quando dirige si gioca tutto».
Un ultimo spunto, questa volta polemico: il critico Duilio Courir, nel ’78, scrisse che lei era «completamente privo di maturità tecnica e musicale». Questo episodio può avere a che fare col suo rifiuto di dirigere a Milano?
«Al riguardo devo dire tre cose. La prima è che il tempo passa. La seconda è che si possono sbagliare tanto i giudizi che le interpretazioni. Terzo, che come io non gliene voglio adesso, a Courir, forse lui non me ne vorrà se dico che allora pensai la stessa cosa di lui. Ancora una volta, tutti possiamo sbagliare. Comunque, per il momento, è solo la mancanza di tempo che mi impedisce di venire a Milano. Tanto è vero che, per l’87, la mia presenza alla Scala è già concordata».
Di Enrico Regazzoni