GIUSEPPE Sinopoli ha iniziato con una laurea in medicina, ha studiato Freud e la psicoanalisi, era già un musicista affermato e ha ricominciato a studiare per laurearsi anche in archeologia. Come ci si orienta in questa galassia?
«Sono tre maniere di ricercare il cuore degli uomini. Quello della medicina è il cuore fisiologico, anatomico, la base, il corpo, che diventa spesso un problema dei mali dell’anima. (…) Lo studio della musica è sempre, ancora la ricerca dell’uomo, però in quello che è più misterioso, in quello che è più lontano dalla realtà tangibile, in quello che è più astratto ma nello stesso momento espressivo, che può portarti dallo stupore alla commozione. Tutto questo però in un sistema di relazioni quantitative e geometriche sorprendenti. Il terzo studio, l’archeologia, è la ricerca del cuore dell’uomo lontano, di quel cuore che guardava le stelle e capiva molto di più di quanto possiamo capire oggi pur conoscendo, quantitativamente, molte più cose». (…)
Il tuo modo diverso di avvicinarti alla musica per molto tempo non era visto di buon occhio.
«La realtà la disse una volta Massimo Mila: io rappresentavo un direttore d’orchestra che partiva dalla cultura. In Italia ERA POSSIBILE che un musicista compositore partisse dalla cultura, ma non era possibile che un direttore d’orchestra partisse dalla cultura. Anche se poi ci fu un asservimento di direttori d’orchestra ai dipartimenti culturali dei vari partititi, cosa di cui non feci mai parte>>. (…)
Ami molto ed esegui volentieri brani come “Quattro ultimi Lieder” di Strauss, un dolce addio all’esistenza. E volentieri esegui opere dedicate al senso di fine, di perdita, esempio, “Pelléas und Melisande” di Schonberg, “Kindertotenlieder” di Mahler. Li accomuna un senso di perdita che un po’ è anche il senso di fine secolo: perdita di certezze d’ordine metafìsico, ma pure perdita per la musica delle certezze tonali.
«Io penso che il senso della perdita e la capacità di elaborazione della perdita, la capacità di elaborazione del lutto, sia uno dei temi più forti e più importanti della nostra esistenza oggi. (…)».
Intravedi affinità tra la fine dell’Ottocento e la fine del Novecento?
«La fine dell’Ottocento si confrontava con il problema del vuoto di valori, la fine di questo secolo invece si confronta con il problema del vacuo. La differenza sostanziale tra questi due concetti è che il vuoto si può riempire, il vacuo non si può riempire». (…)
I protagonisti musicali, culturali di fine Ottocento sarebbero adatti anche a capire, ad affrontare le vertigini della nuova fine di secolo?
«No. Mahler non capirebbe affatto la situazione di oggi. Freud credo neppure. E Schopenhauer verrebbe deriso, credo. Wagner verrebbe considerato un pompier, e poi non potrebbero capire neppure il nostro periodo perché è un periodo in cui qualsiasi emozione è leggibile soltanto attraverso la lente d’ingrandimento della violenza e dell’aggressività».
Caduti i concetti di rivoluzione e di controrivoluzione, cadute con il Muro di Berlino molte certezze ideologiche, a chi ricorrere, a quale pensiero, a quale filosofia?
«Io penso che gli uomini abbiano bisogno di silenzio in questo momento. Bisogna creare uno spazio in cui vivere in silenzio. L’uomo è distrutto dai rumori, non soltanto dai rumori fisici, ma anche dai rumori spirituali. Una terapia incredibile sarebbe, anche se traumatica all’inizio, creare il silenzio televisivo. La gente non saprebbe più come occupare le serate o i pomeriggi. Se ci fosse un silenzio televisivo per un certo periodo e si creassero altri silenzi, forse si comincerebbe ad ascoltare qualcosa».
Di Alberto Sinigaglia