La musica deve tornare rito

 […] Quali caratteri rendono inconfondibile la pluricentenaria Orchestra di Dresda?

«In senso tecnico, l’omogeneità del timbro privo di ‘eccessi’ determinati dalla personalità dei solisti; e il fatto che la straordinaria tra dizione sinfonica, nella quale è cresciuto il complesso, si sia incontrata con il mondo dell’opera lirica, derivando un concetto del suono come fondamentale supporto espressivo. In senso più ampio, l’aspetto ‘morale’ con il quale la musica viene affrontata. Essere musicisti, a Dresda, significa non solo svolgere una professione ma stabilire una propria identità di uomini attraverso un coinvolgimento profondissimo. E il momento del concerto è un autentico rito».

Perché in Italia, invece, la musica resta in gran parte uno svago, un’occasione di presenzialismo o di pettegolezzo su ciò che i divi fanno a letto?

«A Dresda la musica è stata per molti anni una delle pochissime forme di libertà, e una compagna di solitudine. È tuttora una componente fondamentale nella formazione dell’esistenza. In Italia si è creata, all’opposto, una schizofrenia fra vita e cultura. Quando la musica invade gli spazi sociali lo fa non attraverso i ‘propri’ strumenti culturali, ma assumendo le forme estranee del protagonismo dei divi. Tutto ciò deriva dall’orribile dilagare dei mass media visivi, che hanno annullato la lettura e frantumato la cultura: gli stessi giornali, gli stessi testi didattici sono ormai scritti secondo un modello ‘visivo’, con conseguenze gravissime. In Germania non è così».

Alla Scala ascolteremo ‘Vita d’eroe’ di Strauss, un autore cui Lei è molto affezionato e sul quale è pesata per tanti anni una qualifica di passatismo e di arretratezza culturale.

«Nulla di più sbagliato. Io trovo che la modernità di Strauss stia nella sua posizione storica di autore che si esprime ‘dopo il di luvio’, dopo il crollo della grande tradizione con la quale intrattengono ancora rapporti Berg, Schönberg e Webern. Strauss, come Stravinskij, ne affronta i resti, le vestigia. Ma per Stravinskij questi resti sono calchi di gesso, dall’aspetto mortuario. Con Strauss, invece, l’utilizzo della grammatica della tradizione produce uno strano fenomeno: essa prende a cantare, dalle pietre nascono sirene, e se ne genera un’autentica commozione. In una simile ambiguità sta il fascino di questo compositore straordinario».

Possiamo dire che Stravinskij utilizza la tradizione senza amarla, e che invece in Strauss ci sia un rapporto affettivo?

«L’unico rapporto di affetto manifestato da Stravinskij è con il mondo del sacro rappresentato dalla tradizione russa ortodossa, rivissuta con lo strazio dell’esule. In Strauss, e penso alla conclusione di ‘Vita d’eroe’, si avverte la solitudine di chi ha la tradizione nel sangue, e sa che tutto è finito».

Lei, che è stato compositore e ora non compone più, cosa ne pensa? Perché «tutto è finito»?

«Oggi chi compone è un eroe. Ma non è detto che questo eroe ritorni dal suo viaggio con l’immortalità acquisita. L’immortalità artistica non appartiene più alla società di oggi. Viviamo unicamente di un rapporto con la memoria, con ciò che è ‘già’ stato. E i veleni dei mass media stanno distruggendo anche questo: la visualizzazione ossessiva taglia il nostro rapporto con il mondo degli affetti. Andiamo tristemente verso una solitudine priva di memoria: e io credo che in questo si dia una spiegazione culturale al gran numero di suicidi nelle civiltà più evolute».

 

LA MUSICA DEVE TORNARE RITO

A cura di Francesco M. Colombo,

Corriere della Sera, 15.10.1985