La Fanciulla del West – intervista di Paolo Arcà

Maestro, che posto occupa La fanciulla del West nel percorso creativo pucciniano?

Sono convinto che quest’opera sia particolarmente importante nella produzione di Puccini, innanzitutto perché non risponde al cliché consueto, tipico delle altre opere pucciniane; non vi è un finale tragico; l’eroina non è una creatura debole e indifesa, destinata al sacrificio. Ma la Fanciulla è importante anche per il fatto che in essa si rispecchiano le vicende biografiche dolorose degli anni in cui Puccini la compose. Parto dal presupposto che il momento, assai triste, del periodo della vita che coincise con la composizione della Fanciulla sia stato decisivo per la concezione drammaturgica e musicale di quest’opera. Mi riferisco in particolare alla tragica vicenda di Doria Manfredi, la giovane a servizio in casa Puccini, indotta al suicidio, nel 1909, dalla gelosia della moglie del compositore, Elvira, che sospettava una relazione tra suo marito e la giovane. Fu un legame rivelatosi in seguito inesistente, ma Puccini, come scrisse alla sorella, ricevette “un colpo terribile” da questa vicenda, che lo condusse a uno stato di profonda prostrazione fisica e interiore, precisamente nel periodo in cui stava terminando l’opera. E dunque una inquietante fase depressiva, che si fa sentire distintamente soprattutto nelle ultime pagine.

E per quello che riguarda i caratteri musicali più significativi dell’opera?

Bisogna parlare delle varie componenti di questa composizione: drammaturgia, libretto, armonia e orchestrazione, per dare una risposta completa. Cominciamo con la drammaturgia, che è generalmente assai poco apprezzata; il libretto di Guelfo Civinini non è certo un capolavoro, anche se va detto che il secondo atto è perfettamente riuscito come tensione drammaturgica e riesce a realizzare un incalzare drammatico di assoluta infallibilità.

Ma se questo è un limite, dobbiamo pur riconoscere a quest’opera un merito indiscutibile: l’esser riuscita a trasformare un tema veristico abbastanza prevedibile e una rozza ambientazione nella attenta analisi di una piccola società strutturata com’è la comunità dei minatori. Certamente è molto facile per critici dotati di scarso senso di approfondimento vedere in quest’opera soltanto l’aspetto più evidente e più scoperto: la California della corsa all’oro, delle pistole e dei saloon, dei cavalli e degli indiani, cioè quell’ingenuo cliché western che tanto ha nuociuto all’interpretazione più autentica e profonda di quest’opera.

Qual è invece la sua visione dell’opera?

La Fanciulla è soprattutto una storia di gente povera dove la miseria rende possibile ogni cosa. Puccini non fotografa in senso veristico questa storia di miseri cercatori d’oro, ma con la sua musica li analizza sotto l’aspetto psicodinamico e vorrei dire per alcuni casi, nevrotico-ossessivo; scompare il retroterra piccolo-borghese presente in tante opere di Puccini; le emozioni qui sono grandi, brevi, mutevoli, imprevedibili, provocate da minimi eventi, precisamente come succede in ambienti chiusi di gruppi poveri e oppressi. Dai primi momenti dell’opera pesa su questi uomini la condanna del destino, che li precipita sempre più in basso nel loro quotidiano tentativo di sopravvivere. Barare è per Sid l’unica possibilità di trovare un’identità altrimenti irraggiungibile; il suo smascheramento, all’inizio del primo atto, lo fa cadere ancora più giù; il contrappasso: una identità acquisita negativa. La malaria gialla, la nostalgia, il “mal di terra natia” obbliga Larkens a tornare a casa, in Cornovaglia, ma con questo egli perderà tutto; tornare a casa, dalla madre, alla terra equivale a morire. La protagonista dell’opera, Minnie, è un personaggio complesso, dalle molte implicazioni psicologiche: è contemporaneamente la fidanzata casta e la mamma di uomini semplici e ruvidi; ciò significa che ella costituisce già in partenza un tabù che li rende del tutto disarmati; cosicché quando compare il richiamo alla religione, questa volta come possibilità di perdono e redenzione, invocati da Minnie per Johnson, irrompendo con la forza di un uragano sulle sue vittime, i minatori, perdonando, pagano e perdono.

E il finale, tante volte criticato…

Già, ma inteso così il finale di quest’opera spesso discusso può diventare tragico e drammaturgicamente convincente; qui la gente povera è la più generosa; e al tempo stesso essi, i poveri, sono destinati a diventare sempre più poveri. La soddisfazione morale di essere stati generosi è in realtà la licenza per la disperazione, poiché i minatori perderanno Minnie e saranno ancora più poveri, più condannati.

Quindi nel finale non vince l’ethos del perdono, ma l’egoismo di Minnie. Mentre Minnie e Johnson si allontanano, sullo sfondo dei monti della Sierra californiana, nell’oscurità delle miniere ognuno di loro, che è stato generoso e ha perdonato perché era buono e povero, rimane ora più buono e più povero di prima. Non è Sid che ha barato, ma Minnie.

Parliamo ora del verismo pucciniano e di quest’opera in particolare.

Nella Fanciulla, anche se tutto quello che succede in palcoscenico può essere etichettato come tipico verismo all’italiana, questo sicuramente non vale per quanto accade in orchestra. Il concetto vale, secondo me, per tutta la produzione di Puccini, ma si addice sicuramente, nella misura massima, per la Fanciulla. Puccini non è un compositore verista e dimostra, con quest’opera, di essere un musicista europeo aperto all’influsso della scuola francese della fine del secolo, come della scuola viennese del principio del nuovo secolo. La cosa straordinaria, in quest’opera, è che questi influssi sono stati elaborati da Puccini in uno stile del tutto personale, sia nella tecnica dell’orchestrazione, sia nell’uso dell’armonia. Troviamo in questa partitura esempi di estrema raffinatezza nell’impiego del linguaggio armonico e della tavolozza timbrica; un modello che ha un corrispettivo forse solo in Richard Strauss e Alban Berg. Puccini quindi è un compositore antiverista pur avendo messo in musica molti libretti veristi.

Vi è quindi nell’opera un doppio binario tra orchestra e palcoscenico?

Sì, ma direi di più: questa apparente dicotomia si trasforma in un miracolo: il vero ed il reale imposti dalla scena diventano il sogno tramite l’orchestra. Con un fraseggio sottile ma di pari appassionato, con un suono raffinato e fragile come mai prima, con violenze metalliche e ritmi sottoposti a squassi insostenibili essa rende sottilmente palpabili i sogni coscienti e gli incubi incoscienti, i desideri e le angosce. Pensiamo per esempio alla musica dei due duetti di Johnson con Minnie: questa non è musica da banditi nel senso veristico; piuttosto è la musica della decadenza viennese dell’inizio del secolo, ricca di amaro senso della perdita, ma sottoposta a un flessibile controllo delle curvature espressive: liberty. Il floreale stà in quell’insinuante vagheggiare dei tempi composti, in quella raffinatissima sospensione della gravitazione prestabilita alle regioni della dominante o della sottodominante, nell’inanellarsi di accordi eccedenti e di nona alterati che si polverizzano in successioni orizzontali esatonali di intervalli, rilanciati poi in accordi verticali con l’abilità di un giocoliere virtuoso ma naïf.

Esemplificativo in questo senso è il valzer del primo atto. Quando i minatori, in segno di simpatia, invitano Johnson a ballare un valzer, Puccini inventa uno dei momenti più magici della partitura. I minatori intonano pianissimo, dolcissimo e legato un valzer che è tutt’altro che verista. Il valzer che noi ascoltiamo e che si diffonde gradualmente in orchestra non è il valzer che ballano e cantano sulla scena; è piuttosto il valzer con il quale Minnie e Johnson potrebbero sognare di Washington. Ma la cosa più stupefacente, per comprendere l’acutezza dell’intuizione pucciniana, è il progressivo cambio di metronomo con cui il tempo del valzer si presenta: dopo l’Allegro con slancio dell’inizio, quando il desiderio, la estenuante dolcezza iniziale della passione commista al dubbio si insinuano, l’andamento diventa sempre più moderato, più lento. La rid-uzione dell’agogica metronomica cor-risponde esattamente al passaggio dalla realtà al sogno. Il rallentare del pulsare del tempo, l’appesantirsi del respiro creano una malinconia tanto dolce e fragile quanto tragica.

A suo giudizio, nella scrittura pucciniana vi sono delle caratteristiche soprattutto di talento istintivo o invece essa è in rapporto concreto con i compositori europei dell’inizio del secolo?

Credo che, proprio la continua correlazione tra elementi di analisi psicologica e materiale ritmico e armonico induca a considerare Puccini non appartenente alla schiera dei compositori veristi. Direi piuttosto, che egli possa essere messo in rapporto con i compositori della Secessione viennese: Franz Schreker, Alexander von Zemlinsky, Erich Wolfgang Korngold, Joseph Marx. Il continuo amalgama, la totale commistione dell’elemento realistico della scena con l’elemento onirico in orchestra consentono di definire Puccini come l’unico rappresentante dello Jugendstil italiano.

Le sincopi che spesso compaiono in orchestra, sottoposte a varianti continue e sistematizzate, affidate al timbro, alla dinamica e alla loro natura stessa di sincopi semplici o composite, esprimono, nei momenti di grandi slanci melodici o di indagini psicologiche («Vi ricordate?»), i sintomi della natura oscillante, incerta della psiche dei personaggi. Quindi la sincope, sia pure caratteristica del ragtime, non è solo un richiamo a una danza americana tipica del periodo e pure presente nell’opera; tale elemento ritmico diventa qui lo scandaglio che Puccini usa per approfondire i sentimenti più svariati e le condizioni psicologiche dei personaggi, ben al di là del fatto che esso sia parte costituente di un ritmo di danza.

Puccini, dunque, in rapporto diretto con le più raffinate tecniche compositive del periodo…

Certamente nel corso della partitura vi sono molti esempi di tecniche di scrittura assai raffinate, analoghe a quelle che si trovano in Debussy o particolarmente in Stravinskij. Ci sono molti esempi affascinanti resi dalla “agitazione” del tessuto musicale che Puccini ottiene attraverso un apparente disordine formale, come per esempio, nel secondo atto, nel duetto drammatico tra Johnson e Minnie, dopo la scoperta di Minnie della relazione di Johnson con Nina Micheltorena. Qui si rispecchia il dramma della situazione, che nella partitura è indicato dall’Allegro agitato tumultuoso, attraverso l’organizzazione del periodo musicale, dove predominano asimmetria e irregolarità assolute.

Avevamo accennato all’inizio alla componente timbrica…

Una organizzazione così meticolosa non si esaurisce in questa partitura solamente nella componente formale e armonica, ma si estende anche al colore sonoro e timbrico dell’orchestra. In questo senso la partitura della Fanciulla rivela una precisione addirittura ossessiva, una passione per la raffinatezza del colore sonoro portata al culmine. E tutte queste caratteristiche si congiungono in un risultato di sconvolgente penetrazione. Se vogliamo fare un confronto con la strumentazione di Richard Strauss, si può dire che, con risultati simili, i mezzi impiegati da Puccini sono quantitativamente meno dispendiosi, fedeli ad una economia complessiva che è attentamente funzionale. Un elemento timbrico interessante di questa partitura, da non mancare di segnalare, è la macchina del vento, che introduce un suono grezzo, con il rischio di soffocare quanto musicalmente organizzato vi è in orchestra, ma che è una sorta di avanguardismo ante-litteram, da comparare in un certo senso al futuristico «intonarumori» di Marinetti (in realtà Russolo, n.d.c.)

Un’opera ricca di suggestioni e di spunti, su cui vale la pena di riflettere, riconsiderandola criticamente.

Credo senz’altro che la Fanciulla rimane, non solamente per le ragioni sopra indicate, se non la più bella opera di Puccini, perlomeno la più interessante. Mi sembra assai importante il fatto che Puccini abbia tentato una rottura con il linguaggio più convenzionale delle opere italiane di matrice veristica, riuscendo a inserirsi a pieno titolo nelle grandi correnti del pensiero compositivo dell’Europa del suo tempo, con conseguenze di grande rilievo anche sulla musica che sarebbe venuta dopo.