Intervista su Madama Butterfly

Credo che, per la prima volta da quan­do Madama Butterfly è stata incisa in disco, la tua recente interpretazione possa autorizzare l’uso del termine « tragedia ». Cosa ne pensi?

Sono perfettamente d’accordo. È un ‘ope­ra che parte, per così dire, in nero. La vio­lenza quasi rumorosa degli archi in avvio  è l’espressione di un meccanicismo duro, spietato; potrei definirlo l’aggressione che la presenza di Pinkerton opera verso un  sistema equilibrato e autonomo, con una propria cibernetica, quale l’orientale. È un effetto, questo, quasi al limite dell’articolazione e pur articolatissimo, sul  quale abbiamo lavorato a lungo con la Philarmonia.

Un rapporto traumaticodunque.

Non vorrei fare il paladino della cosiddetta fedeltà al testo, ma devo dirti che talora ciò che di inusitato spesso  si  trova, o viene trovato, nelle mie letture musicali nasce,  per  paradosso  solo  apparente, da un estremo rispetto di quel che sta scritto in partitura. Ma, ripeto, non si tratta di­ ergersi a paladini di qualcosa, perché sarebbe ingenuo ipotizzare una corrispondenza letterale tra la musica scritta e la sua realizzazione. Esiste, di fatto , uno scarto fra ‘ idea ‘ e ‘segno ‘ ; e quindi fra ‘segno ‘ e ‘messaggio’. Fra questi tre momenti vi­ve una serie di incolmabili abissi, che la semiologia ci ha fatto toccare con mano negli ultimi quarant’anni. Quello che è scritto è soltanto una traccia , un compro­messo; a un interprete spetta di vedere co­sa questa traccia scalfisca, di rimando, nel nostro sistema culturale e psichico e le as­sonanze che riusciamo, di conseguenza , attraverso questa traccia, a mettere in rap­porto colle nostre stratificazioni. Quando vado ad ascoltare , per fare un esempio, un concerto di musiche beethoveniane, non mi riguarda affatto Beethoven, che non so neppure cosa sia, ma le tracce che questo autore ha lasciato nelle strutture mentali di un Klemperer, di un Karajan , di un  Kleiber .

È, in sostanza, ciò che Furtwiingler aveva sempre affermato. Mi ricordo di un acu­tissimo suo passo relativo all’esecuzione oggi delle Passioni bachiane: come fare a ricostruire ciò che Bach aveva in mente al­lora, se non depositandovi le molteplici stratificazioni succedutesi nella nostra cultura?

Questo , certo, non vuol dire che un di­rettore d’orchestra non debba fare co­munque una rigorosissima analisi del ‘se­gno’. Ma quel che mi affascina è il recu­pero non tanto del ‘segno’ quanto dell’a­bisso; di quella sorta di meccanismo ritua­le, insomma, che dalla necessità porta al­la scrittura,  all’epifania  del  ‘segno’ stesso.

– Vorrei tornare un momento alla But­terfly. A me pare, e credo di averlo già detto con altre parole, che una cosa di­stingue in modo precipuo questa tua let­tura da quelle poche altre di gran livello che l’hanno preceduta nella registrazio­ne; e mi riferisco particolarmente alle due incisioni a firma di Karajan: lo spostamen­to dall’angolazione della nuance e dell’e­leganza timbrica, ovverossia dal versante solito ‘francese’, a quella del monodram­ma espressionista. Ritieni che la tua lun­ga frequentazione o, per dir meglio, il tuo consenso intellettuale alla stagione schoenberghiana-weberniana abbia influi­to  su  questo  spostamento?

Io credo, piuttosto, che molto dipenda dal tipo di approccio che s’ intende instaura­re con Puccini. La Butterfly , per venire al­lo specifico, non mi va di vederla come una semplice  testimonianza  del  Floreale, o del decorativismo, diciamo, malinconi­co; e vorrei chiarirtelo con un esempio pratico,  attraverso  cui  mi  par  possibile, poi, dimostrare come quel paradosso ap­parente di cui dicevamo (l’inusitato co­me effetto di un’analisi rigorosa del te­sto) venga fuori senza tanti equivoci. Pen­siamo a una pagina orchestrale dell’ope­ra, il Preludio all’atto III. In una conce­zione, diciamo, sana, pre-psicanalitica dei fatti, cosa si mette in evidenza in questa pagina?  Il  bimbo è stato messo a  letto, quell’uomo a lungo aspettato sta per ar­rivare, insomma Cio-Cio-San si predispo­ne a un’affettuosa, melanconica speran­za. Ora, questa è certo una chiave di lettura.  Si  sceglie  un  tempo  comodo,  un 4 /4, mettiamo, al posto del previsto 12 / 8, con un’articolazione ternaria all’interno del movimento che dia un ritmo fluido, tale da  alleggerire la malinconia  in una forma di speranza, appunto;  il  metrono­mo iniziale fissato da Puccini indica un Andante sostenuto , con 56 alla semimi­nima, che poi diventa 12 / 8, Andante molto lento e sostenuto, con 100 alla cro­ma. In effetti, spesso questo Andante molto lento e sostenuto non viene battu­to in dodici alla croma, come Puccini ave­va prescritto,  ma in  quattro, in  un tem­po almeno due o tre volte più veloce. Il che avvantaggia, in pratica, la linea me­lodica generale ma non punta invece l’ occhio con accuratezza microscopica su tut­te le frantumazioni interne che stanno sot­to di essa: le strutture ritmiche, ad esempio, dei contrabbassi col timpano, i sincopati dei corni, le note d’appoggio sugli ultimi tre tempi della battuta  dei  tromboni,  che creano una specie di disagio sotteso alla melodia: una melodia che è, d’accordo, melodia della Schwermut, della malinco­nia, ma sotto cui, ripeto, si cela un enor­me disagio.

–  Mi sembra tu intenda dire che questa celebre attesa di Cio-Cio-San dinanzi al­lo shosi è una vera e propria Erwartung …

In effetti è una Erwartung schoenberghia­na; perché siamo in presenza non solo dei cadaveri e dei fantasmi del dopo, ma an­che di quelli del prima. E qui sta forse la chiave del mio approccio a Butterfly; cioè, quello che per me conta non è l’atto III in sé, che è un precipizio automatico, ma l’atto  II..

– La preparazione  della  tragedia, insomma.

L’avvio dell’atto II trova, secondo me, Cio-Cio-San in una situazione schizofre­nica. Questa giovane donna, appena di­ciottenne, da tre anni aspetta un uomo che non viene più. Ha un bambino, cre­de che i pettirossi facciano il nido nella stagione sbagliata, crede , infine, che tut­to sia possibile, anche ciò che non lo è. Una totale dissociazione tra il mondo del reale e quello del personale, il quale ulti­mo è divenuto assolutamente fantastico; e la violenza pucciniana mi pare di po­terla individuare proprio nella calma os­servazione di questo tragico meccanismo: l’atto II procede, così come ho tentato di farlo, con un’inesorabile lentezza, in cui tutti gli stadi di questa schizofrenia vengono analizzati sino a quel totale imbam­bolamento che è,  alla fine,  nell’atto III, il Wiegenlied: una ninna-nanna che è la firma della regressione in termini psica­nalitici. La donna ritorna allo stadio in­fantile, come il suo bimbo alla ninna­ nanna, un stadio in cui il fantastico coin­cideva col reale. La Befana che esiste, voglio dire. Tutto il mio interesse, in Butterfly, è cetrato su queste inesorabili dol­cezze, sugli improvvisi scatti di furore che sono tipici degli schizofrenici.

– Ma, se mi  consenti un’opinione,  an­che sulla paura. V’è  un momento  dell’at­to III sul quale di solito si trascorre super­ficialmente  poiché lo si giudica un istante di mero patetismo: l’inciso tematico di Cio-Cio-San « Ah! … Quella donna mi fa tanta paura », allorché ella individua la presenza esterna di Kate Pinkerton. Or­ bene, in nessun’altra esecuzione dell’o­pera che i conosco si  avverte  material­mente, come in questa tua, il senso terrifico  della paura.

È giusto, ma non soltanto nell’atto III: Butterfly è inseguita dalla paura sin dall’ atto I…

– E questo si nota, devo dire. La sensa­ zione di sconcerto che può ingenerare questa lettura è l’assenza della gioia, di quella cordialità del vivere che siamo sem­pre stati avvezzi a considerare una delle strutture portanti dell’atto I dell’opera.

Quando, per dirla con Jung, vi è una sin­cronicità ma non una logica negli eventi che determinano le ‘cose del mondo’ (ri­cordi la risposta della geisha al sorriso di Sharpless ?), allora il risultato finale è quello della paura. Chi non crede alla lo­gica, al principium causalitatis, come l’o­rientale  Cio-Cio-San,  ha paura.

–  Per usare una metafora, se la mente  ha fatto il suo dovere di  pensare,  anche  il braccio sembra aver funzionato alla per­fezione. Spendiamo, insomma, una pa­rola per questi straordinari strumentisti della Philharmonia, i quali hanno segui­to le tue indicazioni con uno scandaglio dei  minima inaudito davvero.  Il suono di questi signori, in certi momenti, è addi­rittura petroso; l’esatto contrario di quella che è stata sempre giudicata, per conven­zione,  la  sonorità pucciniana.

La Philharmonia è un’orchestra con cui la­voro ormai da sei anni e con la quale c’è un rapporto fatto di poche parole. Lavo­riamo molto per una maniera di far mu­sica che, se si vuole, è anche tecnicamen­te indiscutibile: possiamo spendere anche mezz’ora su cinque battute, però credo che questa sia una compagine che ha co­minciato a pensare alla musica in un mo­do diverso. Se potessi farti ascoltare il di­sco che abbiamo inciso recentemente col Bolero di Ravel (e spero che tu possa far­lo presto), potrei forse chiarirti meglio co­sa intendo ; fatto sta che proprio in ciò è il fascino che io subisco da questa orche­stra: non è musica soltanto fatta, la loro , ma pensata e in modo mitteleuropeo, per mia fortuna.

– Anche Mirella Freni e Teresa Berganza, che a mio giudizio sono le due punte di folgore del cast vocale, mi pare abbia­no condiviso e seguito il tuo punto di vi­ sta sino allo spasimo…

Freni e Berganza sono state una cosa sem­plicemente sublime. Forse, con loro , mi convincerò a fare anche Suor Angelica

 – E sarebbe scelta assai legittima,  visto che questo è un’altro test pucciniano in cui avresti la possibilità di verificare al più alto grado l’abisso che si apre tra il ‘se­gno’ del miele e I”dea’ del nero. Per non dire poi che anche Il   tabarro…

Un’opera che adoro, letteralmente. Se, per me, un problema c’è a realizzare il Trittico è, semmai , quello dello Schicchi; non ritengo di possedere la vena di hu­mour necessaria al terzo pannello,  que­sta  è  la verità.

– Ma io non sono del tutto d’accordo, visto che lo humour di Puccini è in gene­re, e nello Schicchi in particolare, un riso che non cuoce; lo potresti cogliere, a mio avviso, sotto l’angolatura del lividore: quel cadavere che ingombra la scena dal­l’inizio alla fine, tutti quei sadici richia­mi di violenza che circolano tra una facezia e l’altra, non so, mi pare che l’impresa potrebbe essere comunque fruttuosa. Senti, per passare a un argomento più ge­nerale: il disco, secondo te , è uno stru­mento idoneo a favorire la carriera o a spe­rimentare nuovi indirizzi interpretativi?

Tutt’e due le cose, ma con una fonda­mentale avvertenza: che a una carriera pri­vilegiata possono accedere tutti, col disco, in prima istanza; in un secondo momen­to i veri valori vengono fuori senza scam­po. Voglio dire che il disco è certamente la più sollecita delle palestre d’avvio, an­che per interpreti, diciamo, questionabi­li; ma come è sollecito a lanciarti, lo è al­trettanto a scaricarti se, alla lunga , non di­mostri… Si tratta di carriere, in­ somma, aleatorie: fulminea l’ascesa, al­meno in termini di notorietà, fulminea del pari l’uscita dal giro ove si dimostras­se che i  tuoi dischi  non vendono.

– Una logica un po’ brutale…

Messa in questi termini, sì. Noi non ven­diamo prodotti commerciabili, è vero, vendiamo idee; però, se ci rifletti un at­timo: hai mai verificato di interpreti au­tentici che , in un tempo più o meno lun­go, non si siano imposti anche al merca­to? Per venire invece al secondo punto della domanda, devo dire che l’incisione mi sembra un canale efficace: la possibi­lità di lavorare con orchestre duttili e pro­fessionistiche, soprattutto , è uno sprone a chiunque abbia idee da far valere, e i tempi di lavorazione, se li sai manovrare, non sono sempre così costrittivi come si pensa. Credo che , in tal senso , il disco rappresenti un veicolo assai utile all’ enu­cleazione di nuovi o, comunque, pensati indirizzi.

– Proprio questa tua Butterfly mi pare una risposta convincente al quesito. Ma come ti poni in ordine al problema, or­mai centrale, del modo? Intendo dire, pensi che si possa attingere a un  indiriz­zo serio scegliendo la via della registrazio­ne in studio, da molti giudicata asettica, o, come ormai è uso di taluni celebri in­terpreti, optando per l’offerta in pubbli­co, per la cosiddetta « aura » di cui disse efficacemente Benjamin?

A dirtela tutta, ritengo che lo ‘studio’ sia un ausilio migliore, nonostante i pericoli paventati; per un interprete che , come me , ama il rischio esecutivo, ossia il sur­ plus di tensione, la scelta di un fraseggio, di un colorito, di un tempo incompatibi­li colla tranquillità, direi che non v’è pos­sibilità di alternativa: il direttore d’orche­stra sa che, nel corso di un’esecuzione pre­parata per un pubblico, non può permet­tersi più che tanto in fatto di rischio, pe­na la perdita del tessuto connettivo, l’ ec­cessiva responsabilizzazione e quindi l’ e­ventuale sbandamento di una delle com­ponenti. Gli esperimenti vanno compiu­ti nella serenità del laboratorio.

– Ci sono delle orchestre che prediligi o, comunque, colle quali ti trovi più a tuo agio?

Quelle con le quali lavoro di solito. Ho già avuto modo di dirti della Philharmo­nia e delle sue qualità, che io stimo pe­culiari; aggiungerò la Staatskapelle di Dresda, la Filarmonica di New York, la Deutsche Opernorchester di Berlino.

– L’ultima domanda è di prammatica, quantunque ovvia: i tuoi programmi di­scografici futuri?

Sono già pronti il Bolero di cui t’ho det­to e il Tannhauser realizzato per Bay­reuth. Compirò quindi un omaggio o, se vuoi, un atto affettivo di ‘sicilianità’ incidendo , sempre per conto della Deutsche Grammophon, Cavalleria rusticana, con Balcsa, Domingo e Pons. Il mio nuovo in­ carico presso la Deucsche Oper di Berlino mi consentirà , infine, di proseguire, coi complessi del teatro e sempre per l’etichetta D.G., l’itinerario wagneriano  con un Fliegende Hollander e di avviare un progetto  discografico straussiano…

–   Il primo titolo?

Salomè.

 

di Aldo Nicastro