Giuseppe Sinopoli la ricchezza del cuore e delle idee – a cura di Fernando De Carli

Era una sera di maggio. Stavo attendendo Giuseppe Sino­poli, nel salotto della sua casa, a Roma. Gli occhi vagavano sui mol­ti libri, disposti negli scaffali e aperti sul tavolino, che rivelano in particolare la sua passione per l’ar­cheologia, così grande da averlo spinto a studiare per ottenere una laurea anche in questa disciplina. Quando Giuseppe Sinopoli spa­lancò la porta, era raggiante. Ritor­nava da Vienna, dove, due giorni prima, aveva colto uno strepitoso successo, al Theater An der Wien, con lo Stabat Mater di Ros­sini. Sinopoli era stato invitato a dirigere questo concerto sull’onda del trionfo ottenuto con l’Orchestra Filarmonica di Vienna durante la tournée che il celebre complesso au­striaco aveva tenuto in Giappone, pochi mesi fa, per festeggiare i cen­tocinquant’anni dalla sua fondazione.

“Questi impegni con la Filarmonica viennese hanno segnato una sorta di ritorno alle origini, per Giuseppe Sinopoli: a quella Mitteleuropa do­ve egli si era formato. Il ritorno prelude a prossimi impegni viennesi, sia sul podio dell’orchestra, nella sala del Musikverein, sia nella buca dell’ Opera di Stato, dove è noto i Wiener Philharmoniker si esibi­scono come Wiener Staatsopernor­chester.

 Vienna è sempre stata uno dei punti di riferimento della mia attività: ho studiato a lungo il pensiero filosofico, in particola­re fino a Wittgenstein, quindi quell’ambiente culturale che trova negli scritti di Nietzsche, Hofmannstahl , Schnitzler, Al­tenberg, tutta una serie di modi di esprimersi che riflettono il mondo della Finis Austriae.

Terminati i miei studi di Medi­cina, mi sono trasferito a Vienna e vi sono rimasto per molti an­ni, per cercare di sentire da vici­no questo ambiente culturale che mi affascinava molto e che, nella musica, per me si riflette­va soprattutto in due interessi: quello per Mahler e quello per Wagner.

A Vienna ho studiato direzione d’orchestra con Hans Swarows­ki e mi sono avvicinato alla Neue Wiener Schule, durante un Corso tenuto da Friedrich Cerha. In particolare,  mi interessava Alban Berg: il mio pri­mo anno di soggiorno viennese era stato reso possibile da una borsa di studio della Fondazio­ne “Berg” – a quel tempo ,viveva ancora la vedova del compositore – allo scopo di redigere un saggio su Lulù. Il titolo della ricerca sarebbe stato: «Il concetto di serpente e  il  concetto di Eva nella Lulù di Alban Berg>>.  Un tentativo di elaborare una critica dell’opera che non ripe­tesse esattamente quanto si poteva dedurre dall’analisi della partitura, ma cercare di individuare aspetti nuovi, di scoprire relazioni nuove.

Successivamente ho conseguito i primi successi all’Opera di Vienna, dirigendo in particolare Verdi ( Attila, Macbeth, Aida) ma pure Tannhauser di Wagner e Manon Lescaut di Puccini.

La mia prima Tournée in Giappone l’ho compiuta con l’opera di Vienna, per dirigere Manon Lescaut, che venne accolta in modo entusiastico.

Poi, per tutta una serie di coincidenze, si è fatalmente realizzato ciò che tutti i viennesi di adozione conoscono. Da Vienna, ad un certo momento bisogna allontanarsi… per poi ritornarci… Negli scorsi mesi, i Wiener Philharmoniker mi hanno invi­tato a sostituire Carlos Kleiber, che si era ammalato, per accom­pagnarli in Giappone, in occasione della tournée del Cento­cinquantesimo. E lì è nato un rapporto bellissimo, molto par­ticolare, che avrà importanti sviluppi in futuro, un rapporto caratterizzato da una grande se­rietà professionale ma pure da un profondo interesse per la musica.

Che i Wiener Philharmoniker abbiano un suono del tutto par­ticolare, diverso da quello delle altre orchestre, è noto. Ciò che affascina ancora di più, è la ca­pacità che hanno questi musici­ti di proiettare un’impronta di umanità, quasi di umanesimo, nel loro modo di suonare. Le orchestre americane, inglesi, te­desche, hanno sempre, nel loro suonare,  una  certa  gestualità esteriore, anche nel momento in cui si crea la grande arte. Nei Filarmonici Viennesi, invece, esiste una compartecipazione, una commozione quasi interio­re. Lo stesso fenomeno si verifi­ca con la Siichsische Staatska­pelle di Dresda: si tratta della capacità di entrare profonda­mente in quello che si fa, pur non lasciando apparire il peso i questo lavoro. Il risultato lo avverte dalla maniera in cui si suona. Il risultato ultimo, quindi, è il suono. Dietro questo suono, esiste un atteggiamento culturale, non ancora intellet­tuale: è il lasciarsi andare a quella “profondità” di cui Nietzsche spesso accusava i te­deschi, ben sapendo però che era uno dei più grandi tesori che essi possedessero. Tale ca­pacità è completamente sparita dai tedeschi, almeno nella musi­ca. Con due eccezioni: i Wiener Philharmoniker e la Siichsische Staatskapelle  Dresden”.

I Wiener Philharmoniker hanno avuto centocinquant’anni per assorbire questo spirito, costi­tuito da un’infinità di elementi. Lei stesso, vivendo  in questa città, leggendo, studiando, ha avuto modo di assimilare la sua “viennesità”. Forse il “rein­namoramento” dei musicisti viennesi nei Suoi confronti, e viceversa, rappresenta qualcosa che sarebbe dovuto succedere: da una parte una persona, dall’altra cento persone. Ma tutte parlano la medesima lin­gua…

Credo sia successo proprio que­sto. Quando lavoro con que­st’orchestra, non penso né parlo in tedesco, ma in viennese. Il viennese è una lingua differente dal tedesco, come lo sono taluni percorsi mentali, gli atteggia­menti. Dei Wiener Philharmoniker, sorprende anche la cultura ex­tra-musicale di una gran parte dei suoi membri, che vantano dottorati in musicologia o in al­tre discipline umanistiche: è for­se l’orchestra con la maggior concentrazione di persone vera­mente colte. E questo si avverte anche nel modo di suonare.

Leggendo il programma della tournée in Giappone con i Wiener Philarmoniker, incontriamo quattro nomi della grande tradizione sinfonica mitteleuropea, Schubert, Bruckner, Mahler, Strauss. Per una persona come Lei, che si è sempre interessata a questi autori, dev’essere stato meraviglioso lavorare a lungo e intensamente tale repertorio con l’ orchestra che virtualmente l’ aveva generato.

L ‘altro giorno, dopo il concerto rossiniano al Theater An der Wien, Werner Resel, violoncelli­sta e presidente dell’orchestra, mi diceva: «Maestro, Lei ormai è uno dei nostri direttori, e quando viene da noi, deve sen­tirsi a casa sua, come noi con Lei ci sentiamo a casa nostra. Lei sarà sempre accolto come uno della famiglia». Penso che il nocciolo della questione stia in quest’idea dell’essere a casa propria, con i Wiener Philharmoniker. Con questa orchestra, ho provato veramente la sensa­zione di trovarmi a casa.

Dirigendo i Wiener, entrando in sintonia con tutte le componenti parallele e trasversali del loro far musica, vengo colto da tutta una serie di emozioni che non ho mai provato con altre orche­stre: sono affascinato dal fatto che questo suono e questa pul­sione ritmica derivano dal modo in cui questi musicisti si pongono davanti alla musica. Avevo nella mia mente la realizzazione ideale di un “Trio” della Prima Sinfonia di Mahler, ma l’ho sen­tito realizzato solo quando mi è capitato di dirigerlo con loro. E ho un’orchestra meravigliosa come la Philharmonia di Lon­dra, un complesso eccezionale che amo moltissimo!

Anche per la Settima di Bruck­ner, mai avevo sentito il primo tema del primo movimento suo­nato come lo sanno suonare i Fi­larmonici Viennesi: è quasi inim­maginabile che un’orchestra possa unire suono, ritmo, fraseg­gio, in modo tanto mirabile.Il che,

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giuseppe Sinopoli con Cheryl Studer in occasione della presentazione alla stampa dell’incisione della straussiana Salomè.

paradossalmente, com­porta per il direttore d’orchestra una particolare difficoltà: que­sta  è  un’orchestra   che… non vuole essere diretta. Il direttore, con i Wiener, non deve scandire il tempo, ma suggerire un tipo di fraseggio: la sua gestualità, quindi, non dev’essere esterior­mente spettacolare, non deve sbacchettare con un gesto più o meno estetico, ma deve suggeri­re la frase, suggerire il modo di pensarla, il che non è nemmeno sempre necessario. Hans Swa­rowski aveva l’abitudine di dire che un direttore, l’orchestra può solamente disturbarla. Con i Viennesi, battere il tempo serve solo al direttore per andare avanti e all’orchestra per… di­ struggere il proprio suono.
Certo, per lavorare sulla frase e sulla forma, bisogna avere delle idee che convincano i musicisti. Se questo avviene, se il direttore abdica al ruolo di “direttore-dit­tatore” e fornisce pensieri, emo­zioni, ecco che l’orchestra tra­smette quella sensazione di tro­varsi in comunione con il diret­tore.

Esiste un’altra orchestra, a cui Lei si è avvicinato soprattutto per la necessità di “vibrare con essa”: la Sachsische Staatska­pelle Dresden. Lei aveva risposto positiva­mente all’invito dei responsabi­li dell’orchestra di assumere l’incarico come direttore stabi­le, ma tale decisione costituiva un salto nel buio (il Muro di Berlino non era ancora caduto ), nell’ambito di una realtà poli­tica ed economica decisamente problematica, quale quella dell’ex DDR…

Di questa orchestra, mi interes­sava la maniera di far musica: ero affascinato dal silenzio che si creava fra i musicisti durante i concerti e durante le prove. L’orchestra di Dresda vive il far musica come un fatto rituale . Perché la musica è un fatto ri­tuale: è una delle pochissime cose che, al giorno d’oggi, han­no ancora una simile caratteri­stica. Per ascoltare musica, per fare musica, ci si reca in un partico­lare spazio (chiamato audito­rium o teatro), che ha una deter­minata conformazione, che spesso ha una struttura architet­tonica con riferimenti simbolici; si va vestiti in un determinato modo (e se non lo si fa, ciò av­viene per reazione, quindi si se­gue anche in tal caso un atteg­giamento rituale); si inizia a una certa ora. All’opera, si ritorna a un tempo originario: si torna a pensare e a rivivere situazioni che in passato erano normali e che oggi forse non si ha più il coraggio di rivivere. Ascoltando musica sinfonica e da camera, ci si confronta con esperienze crea­tive e emozionali che testimo­niano, al pari dell’opera  anche se in forma più astratta (non esi­ste la vicenda del libretto, a cui riferirsi), i momenti più vitali e più cruciali della vita dei com­positori. La musica non è soltan­to un’esperienza creata per far piacere al pubblico, è la docu­mentazione delle crisi di coscienza di chi l’aveva composta.

La terza orchestra che Lei diri­ge, la Philharmonia di Londra, è, in ultima analisi, un’orche­stra di carattere mitteleuropeo, perché, pur non avendo che poco più di cinquant’anni, è stata forgiata da due personalità co­me Karajan prima e Klemperer poi.

La Philharmonia che avevo preso in mano dieci  anni  or  sono era rimasta mitteleuropea nelle persone, visto che vi suonavano ancora parecchi musicisti che avevano lavorato con Klempe­rer. Tuttavia, alla morte di que­st’ultimo, l’orchestra si era co­me disorganizzata. Quando Ric­cardo Muti cominciò a lavorare con la Philharmonia, come suc­cessore di Klemperer, gli toccò riorganizzarla, nel senso della disciplina, della professionalità, della qualità del suono. Muti, allora giovane direttore, compì un lavoro in profondità, senza il quale sarebbe stato impossibile per me procedere. A meno che mi mettessi io stesso a riorga­nizzare il tutto. Il lavoro di Muti e stato fondamentale, per rimet­tere l’orchestra nelle condizioni di effettuare  quel ritorno culturale al repertorio tipico per il quale si era fatta apprezzare da Karajan e da Klemperer.

Sopra: Sinopoli durante la registrazione del Rigoletto. Si riconoscono nella foto Renato Bruson ed Edita Gruberova

Posso dire con orgoglio che la Philharmonia, negli ultimi anni, è stata in grado di contrappun­tare la famosissima registrazio­ne di Tristano, realizzata con Furtwangler, con la registrazio­ne di Tannhtiuser; nel 1994, regi­streremo Die Frau olzne Schatten, contrappuntando così il Rosenkavalier inciso da Karajan. Con la già effettuata incisione wagneriana, e con la futura inci­sione straussiana, condurrò l’or­chestra inglese a riappropriarsi di un repertorio sostanzialmen­te di spettanza esclusiva, in questi ultimi decenni, dei Berli­ner Philharmoniker, dei Wiener Philharmoniker e della Sachsi­sche Staatskapelle di Dresda. Affrontare un tale repertorio anche a Londra, per me è stata una grande conquista, il frutto di un lavoro lento e assiduo, diretta continuazione dell’opera di Riccardo Muti.

Un capitolo fondamentale della Sua attività con la Philharmo­nia è rappresentato dall’esecu­zione delle opere di Mahler. Esiste una volontà di principio, nel Suo lavoro con questo auto­re, di scandagliare uno degli aspetti principali della cultura mitteleuropea di fine Ottocen­to inizio Novecento?

Attualmente, per me, il più sen­sazionale “strumento” per ese­guire la musica di Mahler è la Filarmonica di Vienna. Imme­diatamente dopo, però, l’orche­stra più accreditata per le esecu­zioni mahleriane è la Philharmonia di Londra. Non soltanto perché è stata “educata” a Mah­ler da Otto Klemperer,  uno dei più accreditati esecutori della musica di questo compositore, del quale fu discepolo. La Philharmonia, in questi ultimi anni, ha raggiunto un livello tecnico strepitoso, un virtuosi­smo e una qualità di suono di pari livello, sia negli archi che nei legni e negli ottoni. E stiamo ancora lavorando, per superare un livello già altissimo, per ren­dere il suono ancora più mitte­leuropeo, ispirandoci come mo­dello al suono della Filarmonica di Vienna. Spero di riuscire ad avvicinarmi ulteriormente alla sonorità specifica degli archi dei Wiener.

Giuseppe Sinopoli con Piero Cappuccilli
Giuseppe Sinopoli con Lucia Valentini-Terrani

L’esperienza mahleriana con la Philharmonia è stata meravi­gliosa, sia per ampiezza che per intensità. La tournée giappone­se  è stata un’esperienza unica, come le molte esecuzioni della stagione al Royal Festival Hall e di altri viaggi sono state tutte indimenticabili, per me.

Una grande conquista, con la Philharmonia, è stata la Settima Sinfonia. La Settima di Mahler si sente raramente in concerto: è una pagina ingrata, difficile da “pensare”, da dirigere, da ese­guire. La prima volta che ho di­retto questa Sinfonia con la Philharmonia, gli orchestrali erano sgomenti. Sebbene avesse­ro suonato con me già tutte le al­ tre Sinfonie di Mahler, fu un ve­ro choc per loro ritrovarsi davan­ti a questa specie di sfinge impe­netrabile. Pochi giorni or sono l’abbiamo incisa e sono stato davvero felice quando i musici­sti  mi  hanno  detto: «Abbiamoimpiegato  cinque anni, ma ora, per noi, questa Sinfonia è diven­tata come la Prima, la Seconda, la Terza, come tutte le altre!».

L’importante, con un’orchestra, è svolgere un percorso coerente, oltre che continuato. E con la musica di Mahler, credo proprio che questo percorso l’abbiamo svolto. In dieci anni abbiamo sviluppato un modo di pensare, un modo di suonare questa mu­sica, che è quello della chiarez­za, del livello esecutivo, del ri­gore formale, a cui io tengo mol­to nelle esecuzioni mahleriane. A patto che esso sia legato a quel senso della perdita, dello smarrimento, dello straniamen­to, che sono tipici del mondo psicologico di Mahler.

Esiste una Sinfonia di Mahler indissolubilmente legata alla storia della Philharmonia di Londra, sia attraverso le miti­che versioni di Otto Klemperer, che attraverso le numerose in­terpretazioni che negli ultimi anni l’hanno quasi trasformata nell’inno di questa orchestra: la Seconda Sinfonia. Il primo lu­glio, Giuseppe Sinopoli e la Philharmonia hanno chiuso la stagione al Royal Festival Hall proprio con l’esecuzione di que­sta Sinfonia. Maestro, come definirebbe il fa­scino e il significato di questa composizione?

Giuseppe Sinopoli e la regina madre d’Inghilterra Elisabetta II

Lo concentrerei nel capovolgi­mento del motto di Scho­penhauer “Leben um zu sterben”, “Vivere per morire”. Nel finale della Seconda di Mahler, invece, si canta “Morire per vi­ vere”. In questo scambio di di­rezioni si definisce la crisi della cultura tedesca e tutto l’essere di Mahler nella cultura tedesca stessa. In questo ambito, esiste­va un pessimismo di fondo, che si individuava nel pensiero di Schopenhauer, secondo il quale il fatto della conoscenza era im­possibile; se non si può conosce­re, si deve rinunciarvi, e soffri­re, con tutti gli uomini, di que­sta rinuncia. Se non si può co­noscere, non resta che morire. Vuol dire, perciò, che si vive per morire. Mahler capovolge tutta questa problematica, in una specie di fideismo, in una gran­diosa apertura di speranza, nel finale della Seconda Sinfonia. Il cammino viene quindi svilup­pato nella Terza Sinfonia, una sorta di indagine sulle origini del mondo, nell’ambito della quale Mahler narra «ciò che raccontano la natura, gli animali, l’uomo, Dio».
Il senso della Seconda Sinfonia è questo: riaprire il mondo della speranza.

Parlando di crisi della cultura tedesca, esiste un compositore come Mahler che l’ha vissuta intermini interiori e privati. Altri musicisti di area tedesca, Wagner e Strauss, hanno vissu­to le rispettive crisi in termini più proiettati verso l’esterno; i riflessi del loro operato sulla società tedesca sono stati parti­colari, al punto che la loro musica è stata associata alla pro­blematica del nazismo.

Giuseppe Sinopoli, come vede quello che fu il fenomeno di as­sunzione dell’opera di questi due autori appunto da parte del nazismo?

Ritornando a Schopenhauer, non credo che la sua filosofia si possa definire di tipo nazista, né tantomeno ritengo che Nietzsche possa essere definito un filosofo nazista. E strano che si sia utilizzato Nietzsche quale emblema del nazismo, con l’ap­propriazione indebita di alcuni aspetti della sua terminologia. Cosa che non è successa a Scho­penhauer; e il pensiero nietz­schiano si basa proprio su Scho­penhauer. E un fatto grottesco, quanto quello che ha visto as­surgere a simbolo della politica sociale nazista il concetto di su­peruomo, dimenticando che tale concetto non è di tipo razzia­le, ma morale. Superuomo non è l’essere superiore agli altri, che lascia credere che esistano uomini inferiori da eliminare. Superuomo è l’essere che riesce a superare se stesso dal punto di vista morale, nel senso della conoscenza. Se i nazisti avesse­ro colto bene il significato della filosofia di Nietzsche, non l’avrebbero utilizzata.

Il caso della musica di Wagner è altrettanto paradossale e ridico­lo. Non vedo sotto quali aspetti la musica di Wagner possa esse­re nazista. Non lo è sicuramente nella sua grammatica musicale, né nel suo carattere, addirittura disgregante, né nella natura del­la sua costruzione, attraverso il sistema del Leitmotiv. I meccani­smi di questo autore non coinci­dono con i princìpi di un’esteti­ca di tipo nazista. Un composi­tore allineato con i princìpi del nazismo, avrebbe dovuto appli­care princìpi meno rivoluzionari e disgreganti di quanto non ab­bia fatto Wagner. Egli è invece colui che ha fatto saltare ogni certezza. Ciò che ha portato i nazisti all’utilizzo della musica di Wagner è la stessa ignoranza che li ha portati a servirsi, come loro simbolo, della svastica. La musica di Wagner è stata impie­gata dai nazisti facendo riferi­mento unicamente alle vicende narrate dai libretti, nell’ambito dei quali si raccontano storie le­gate all’antica mitologia germa­nica. Da essi hanno recuperato quell’idea  di celebrazione della morte come unica possibilità dell’amore, in  chiave,  ancora una volta, schopenhaueriana. Essa è stata trasferita nell’ambi­to di una delirante concezione della morte come olocausto, ov­vero il sacrificio supremo nell’ambito di una totale dedi­zione allo Stato. Morire per lo Stato significava essere lo Stato: raggiungere l’estrema sublima­zione dell’essere uomo nello Stato, che è il momento più alto nell’idealismo estremo di destra. Da qui alla legittimazione dell’eccidio, il passo è breve.

Il fatto più inquietante, per me, nella cultura nazista, è stato quello di impiegare dei materia­ al di là della conoscenza dei materiali stessi. La svastica è un segno colmo di simbologia: è stato usurpato da un’ideologia di volgarità, di morte e, soprattut­to, razzista. Wagner poteva essere anche il più grande antisemita di questo mondo, come poteva scrivere di antisemitismo: la sua musica, però, non contiene elementi an­tisemitici.

E Richard Strauss?

Nel caso di Strauss, Hans Swa­rowski ripeteva in continuazione che egli aveva nascosto in casa sua anche degli ebrei, per salvar­li dalla persecuzione nazista. Swarowski, che era molto legato a Strauss, raccontava anche co­me, dal punto di vista ideologi­co,  egli  fosse  tutt’altro che un fiancheggiatore del regime, anzi! Se la musica di questo autore è stata utilizzata dai nazisti, ciò è avvenuto, ancora una volta, al di là della sua comprensione: di essa si coglieva solamente il ca­rattere spettacolare e celebrati­vo, magari  travisando  il  senso di pagine come Così parlò Za­rathustra, direttamente ispira­to a un lavoro di Nietzsche. Strauss, oltretutto, era il mag­giore compositore dell’epoca e quindi l’esecuzione della sua musica in vesti ufficiali portava acqua al mulino della propa­ganda nazista.

A proposito dell’impiego della musica di Wagner, sembrerà paradossale, ma oggi più che ai tempi del nazismo essa può suscitare insani atteggiamenti na­zionalistici. Per due ragioni: la prima legata al nazionalismo che oggi sta assumendo toni assai intensi; la seconda è legata alla prima: chi oggi inneggia alla razza pura con la musica di Wagner, pensa all’uso di questa musica nel momento in cui tale discorso ebbe il suo massimo sviluppo.

Un’esperienza fondamentale, per un wagneriano, credo sia quella di dirigere nel teatro di Bayreuth. Lei è stato il primo direttore italiano a essere invi­tato a Bayreuth, dopo Arturo Toscanini e Vietar de Sabata; Come ricorda il Suo debutto nel teatro sulla Griine Hiigel, la collina verde, nel 1985?

I lavori che finora ho diretto a Bayreuth, non erano stati “pen­sati” per quel luogo. Spero di aver l’occasione di dirigervi un repertorio diverso, e così di en­trare in sintonia, di trovare quelle magiche coincidenze che rendono assolutamente mirabile l’esperienza che un direttore d’orchestra può vivere in quel luogo.

Comunque, anche dirigendo opere come Tannhèiuser e l’Olan­dese Volante, non espressamente concepite per quel teatro,
ne ho subìto il fascino immenso, il quale deriva soprattutto dal fat­to che il suono viene raccolto nella  conchiglia  che  sta sopra l’orchestra e proiettato in avan­ti, e dal fatto che orchestra e di­rettore sono completamente iso­lati dal pubblico. Questa situa­zione di totale distacco obbliga il direttore a confrontarsi con se stesso e a provare la propria onestà professionale. Personal­mente, non mi sono mai eserci­tato nella ricerca di una bellezza del gesto, ragion per cui a Bay­reuth mi sono trovato a mio agio. Il suono che, a  differenza di ogni altro luogo, dopo essere

Giuseppe Sinopoli con Wolfgang Wagner

stato proiettato sul fondo della scena, ritorna al direttore d’ or­chestra combinato con quello della voce dei cantanti e del co­ro, ti investe letteralmente, creando un contatto quasi fisico, materico, molto più compro­mettente di quello che si avver­te dirigendo in un normale teatro d’opera. Posso immaginare che una musica come quella di Parsifal, nella sua ossessiva cir­colarità, riesca a creare, se diret­ta a Bayreuth, sensazioni straor­dinarie, un contatto tale con le onde sonore da far vivere un’esperienza  irripetibile.

Esiste un collegamento fra l’estetica musicale di area tede­sca tardo-ottocentesca e quella italiana del medesimo periodo, che si identifica in Puccini. Dei direttori italiani in attività, Lei è quello che si è occupato di più di questo autore. A Puccini so­no legati alcuni dei Suoi primi successi, in teatro; le sue edizio­ni discografiche di Manon, Ma­dama Butterfly e più recente­mente Tosca, sono diventate dei punti di riferimento. Il Suo interesse per Puccini si può far rientrare nel discorso che prima si faceva a proposito del Decadentismo di fine Otto­cento nella Mitteleuropa?

Indubbiamente la  coincidenza dei miei interessi  per Puccini non è casuale. I problemi esi­stenziali della perdita dell’iden­tità che viveva la Vienna a cavallo fra Ottocento e Novecento erano legati al fatto che, seguen­do l’idealismo di destra di cui prima si diceva, per il quale esi­steva un’identificazione a livello metafisico fra uomo e Stato, il crollo della monarchia si è trasci­nato con sé tutti i valori politici, filosofici e morali. Tale perdita di valori esistenziali nella Mitte­leuropa ha il suo corrispondente in Italia nel crollo dei valori della borghesia, che dal punto di vista musicale trova il suo principale interprete in Puccini.

Puccini era il compositore della piccola borghesia, con tutti i suoi problemi. Ma Puccini non affronta solo queste tematiche. In Tosca, ad esempio, egli af­fronta argomenti che hanno po­co a che vedere con la piccola borghesia e con il Verismo, a cui troppo spesso si vuole accostare Puccini. Si affronta il problema del rapporto fra potere, Stato e Chiesa, che viene scandagliato in tutto il primo atto, fino al fantasmagorico finale, con il “Te Deum” che è la conclusione dell’urlo di potere di Scarpia, attraverso il quale egli aggredi­sce anche gli affetti privati.

Quanto al presunto Verismo di Puccini, basterebbe una scena della Fanciulla del West per di­mostrare quanto la sua estetica, la sua orchestrazione, siano di­stanti da ciò che ha espresso per esempio Mascagni in Cavalleria. Si tratta della scena del ballo dei minatori: la musica che la sor­regge non è certo da “valzer dei minatori”, ma rievoca il sogno di questi minatori, i quali im­maginano una città lontana, magari una festa in un salone Jugendstil, che loro non sanno nemmeno come sia in realtà. Ciò che si sente nell’orchestra, in quel momento, è completa­mente diverso da ciò che si ve­de sulla scena. Da un ipotetico Verismo si slitta quindi, con Puccini, verso una dimensione onirica, trasfigurata.

Si pensi anche all’inizio del ter­zo atto di Tosca: dopo il canto del pastorello, le campane non sono fatte risuonare in chiave verista. Hanno una funzione evocativa:  passare  dalla notte, che è ancora il momento del possibile (la sorte di Cavarados­si non è ancora segnata, almeno in apparenza), al momento dell’attesa, delle certezze, della morte e quindi del distacco. L’orchestrazione di Puccini è to­talmente allusiva, molto media­ta, di una raffinatezza di timbri che conduce da una dimensione naturalistica a una dimensione sottilmente evocativa.

La Sua inclinazione mitteleuro­pea si è identificata sia in un viaggio fisico a Vienna, sia in un viaggio spirituale in quella città. La Sua risposta a questa “vien­nesità” profonda, nel momento in cui ha iniziato la carriera di direttore d’orchestra, non è sta­ta nel segno della continuità, non ha affrontato Wagner, Mahler,  Puccini, Strauss, ma soprattutto il “primo Verdi” di Nabucco, Attila, Macbeth. Co­me spiega questo Suo dedicarsi a un aspetto della musica così distante da quello in cui Lei era cresciuto, artisticamente?

Il mio avvicinamento al giovane Verdi nasceva da un’esigenza di purificazione. Quando ho ini­ziato a dirigere questo repertorio, stavo giungendo al termine della mia parabola come com­ positore. Almeno, della mia pri­ma parabola, se un giorno conti­nuerò.  Tale  percorso  creativo era molto strutturato e mi ha condotto a realizzare una specie di parafrasi onirica della Nuova Scuola di Vienna, fino a giunge­re alla mia opera Lou Salomè. Il fatto di accostarmi alla direzio­ne d’orchestra e soprattutto di affrontare il “primo Verdi” si­gnificava realizzare una specie di ricerca della concretezza, una sospensione da questo labirinto della parafrasi della Scuola Viennese, della rievocazione mitteleuropea. Mi interessava una dimensione affettiva come quella di Verdi, concentrata com’è in una materia infuocata, di un fuoco bianco però. Il gio­vane Verdi ha la capacità dell’arte povera: il minimo di mezzi per il massimo di mes­saggi. Le sue prime opere con­tengono, nel minimo della ma­teria compositiva, il massimo dell’esperienza drammatica. Questa specie di riduzione della materia alla sua più grande violenza espressiva mi affascinava: era esattamente il contrario dell’ambito artistico in cui mi trovavo a operare in quel momento, costituito dalla massima sofisticazione formale, armonica e timbrica, che impiegava un’orchestra immensa.

Il ritornare a questa semplifica­zione del segno, a questo rapporto inversalmente proporzio­nale fra dimensione del segno e dimensione del significato, la sentivo estremamente salutare.

il maestro con il figlio Giovanni nel deserto del Sinai

Il Suo approccio alla direzione d’orchestra non è mai avvenuto attraverso un atteggiamento edonistico, alla ricerca del vir­tuosismo fine a se stesso. Prima di giungere sul podio, Lei ha af­frontato studi di diverso tipo, si è laureato in Medicina, ha svol­to un’attività di compositore, si è interessato di molti altri aspetti del mondo culturale.

Oggi Lei sviluppa due percorsi: accanto all’intensissima atti­vità di direttore d’orchestra, af­fianca la ricerca nel campo ar­cheologico, in uno studio siste­matico finalizzato a una laurea in questa disciplina. La prece­dente fase “medica”, l’attuale fase “archeologica” dimostrano che non ha mai diretto sola­mente per il gusto di dirigere.

Sono arrivato alla musica da questo  tipo di  contesto, perché non è esistita per me un’altra possibilità. Se non avessi avuto questi interessi culturali, la mu­sica non mi sarebbe mai interes­sata. Perché mi interessa la mu­sica? Perché nella musica esiste questa specie di iato fra  il valo­re espressivo e il valore conosci­tivo. La musica si muove co­stantemente fra gli estremi dell’espressione e della conoscen­za. Ma la musica si può vera­mente conoscere? Attraverso il suo studio  sistematico,  si  tenta di raggiungerne la totale cono­scenza, ma ci si accorge che, ol­tre a un certo limite, con i mezzi dell’intelletto non ci si può più spingere. La ricerca così sfocia nel silenzio. Proprio da questo silenzio scaturisce il fatto mira­coloso della musica, quello espressivo. La musica possiede, cioè, quello che non possiede la conoscenza, vale a dire l’espes­sività. Per capire fino  in fondo la musica, si ha bisogno dell’espressività. E  l’espressività  è la più inquietante sirena, che fa­talmente attira  verso la musica.

Una delle musiche più inquie­tanti che esistano è il Don Gio­vanni di Mozart. Posso imma­ginare che per Lei, Maestro, con la Sua passione per lo studio dei miti e dei simboli, il Don Giovanni rappresenti un’affascinante sirena. Ma per il mo­mento, Lei non ha praticamente diretto la musica di Mozart. Ci­to una Sua frase: «Mozart è co­me il mare, per me: lo adoro, ma non so nuotare»…

E lo confermo. Sono sicuro che, un giorno, dirigerò Don Giovan­ni. Ma solamente quando avrò imparato a nuotare. Forse avrò imparato  quando  avrò  iniziato il mio ritiro nelle Isole Eolie, un posto completamente attorniato dal mare, e non da concerti e da tanti viaggi…

La musica di Mozart è la musi­ca più irraggiungibile che esista e credo che, nella parte della mia vita in cui non dirigerò più molto, Mozart sarà uno di que­ gli autori che affronterò. Per di­rigere Mozart, ci vuole molto pensiero, molto coraggio, molte rinunce, molto tempo. Penso proprio che per me il tempo di Mozart verrà più in là.

Non mi interessa un Mozart ge­stuale, emozionale, con un bel suono e basta. Il problema di “conoscere” Mozart è simile a quello di “conoscere” il segreto di come un tempio greco, apparentemente simmetrico, in realtà è asimmetrico. La musica di Mozart è simmetrica sola­mente in apparenza. Di fatto, il periodo musicale è asimmetri­co: le frasi e il completamento delle frasi sono asimmetrici.

Il problema dei rapporti fra sim­metria e asimmetria è uno dei più complessi dell’antica Masso­neria: questo porsi fra simmetria e asimmetria, questo oscillare fra i due aspetti in musica è estre­mamente difficile da realizzare, perché nella musica si ha biso­gno del suono. “Quel” suono lo si riceve dall’orchestra, quando essa sente che il direttore ha capito il problema. Ciò si verifica­va nei momenti più magici di quando musicisti come Karajan o Bernstein erano sul podio.

Esiste un compositore, che Lei frequenta assiduamente, addi­ rittura ossessionato dai proble­ mi  di  simmetria nell’ambito della forma: Anton Bruckner …

La musica di Bruckner è piena­mente simmetrica: è una musica delle proporzioni, dei rapporti fra numeri, fra il tre e il quattro, fra l’uno e il due, e dei loro signi­ficati. E volutamente simmetrica. Un’altra musica disperatamente simmetrica è quella di Beethoven. Esiste, in questo autore, una volontà titanica di costru­zione, di creare una specie di si­stema di proporzioni assolute fra le parti. La musica di Beethoven è esattamente l’op­posto di quella di Mozart, sotto questo aspetto. Essa però non sembra così simmetrica, come invece effettivamente è. In que­sto senso, Beethoven è un com­positore affascinante, che ho av­vicinato lentamente, negli ultimi cinque anni, e che sto attual­mente indagando. Questa vo­ lontà dallo slancio epico di Beethoven di cercare in tutti i modi di raggiungere la propor­zione nelle forme, si proietta sia nelle macrostrutture che nelle microstrutture: l’estremamente piccolo che si rispecchia nell’estremamente grande, e vice­ versa. L’esempio più travolgen­te di questo sistema – di partire da microcellule ritmiche e inter­vallari, per irradiare verso un’amplissima struttura – è da­ to dalla composizione della No­na Sinfonia.

Giuseppe Sinopoli ritratto durante una visita al tempio di Medimet Habu in Egitto.

Lei ha diretto, in questi ultimi tempi, due importanti lavori del Primo Ottocento: lo Stabat Mater di Rossini (prima con la Philharmonia a Londra e poi con i Wiener Philharmoniker a Vienna) e la Creazione di Haydn (a Roma e a Dresda non molti mesi fa). Da una parte, la morte “tran­quilla”, ma estremamente drammatica, la cui evocazione è contenuta nello Stabat Mater rossiniano; dall’altra, l’inno al farsi del mondo e alla vita della Creazione haydniana.

Lei parla di morte “tranquilla” ma estremamente drammatica, riferendosi all’opera di Rossini. Ci stavo proprio pensando ne­gli scorsi giorni, a Vienna. E un lavoro che mi ricorda un vaso corinzio con un fiore dentro: mi riferisco alle processioni mortuarie, quelle specie di proces­sioni di animali, della trasfor­mazione, della mediazione, della forza.

È presente questa bellezza natu­rale, vissuta da Rossini con grande purezza, come nel “Paradisi gloria”. La drammaticità, il terrore, l’orrore della morte sono rappresentati in questo la­voro dall”‘In sempiterna saecu­la”, un momento che assimila lo Stabat Mater al Requiem di Verdi. Si parte da un sentimento di do­lore umano, quasi popolare, co­me nell’aria del tenore. Questo sentimento di perdita, riferito al dolore della madre per il figlio, si trasforma strada facendo in una specie di orrore depressivo della morte, di paura del vuoto, che riflette le crisi maniaco-de­pressive di cui Rossini soffrì si­ stematicamente, per tutta la vita ma soprattutto nell’ultima parte. Passando alla Creazione di Haydn, devo dire che il reperto­rio oratoriale continuerà a inte­ressarmi. Ho già diretto Il Para diso e la Peri di Schumann, e di questo autore mi interessa an­che Faust. Di Haydn, vorrei af­frontare anche Le Stagioni. Si tratta di un’indagine in quel mondo espressivo che sta fra l’opera e il genere sinfonico: rappresenta un’astrazione della vocalità, una sorta di sublima­zione degli affetti verso la rea­lizzazione di una drammaturgia più indiretta. Nel caso della Creazione, mi affascina in parti­colare quel senso dello stupore quasi mistico, ottenuto con un’enorme chiarezza, una sem­plificazione assoluta del gesto: quella sorta di stupefazione nell’osservare il farsi del creato, l’apparizione dei vari mondi che compongono il creato, dalla natura all’uomo. Nel lavoro di Haydn, mi affascina questa epi­fania, questa osservazione quasi rituale dell’apparire delle cose. E in sé, come argomento di ri­flessione: l’uomo che prova stu­pore  per come si manifesta la forza della divinità.

Maestro, la Sicilia La affascina, anche perché è la terra da cui proviene (Suo padre è siciliano); ad essa ha reso omaggio con l’incisione di Cavalleria Rusticana. Si è anche impegnato nel­la direzione musicale della se­zione “Musica e Danza” del Fe­stival “Taormina Arte”. Due anni fa, Lei ha diretto Salome di Strauss in forma di concerto, lo scorso anno è stata la volta di Lohengrin in forma scenica, quest’anno si ritornerà a Strauss con Elektra. A livello di sensazioni, il fatto di dirigere in quel teatro greco, al quale sono idealmente desti­nate tali opere “mitologiche”, cosa fa provare al direttore Giuseppe Sinopoli?

Ho provato innanzitutto una grande soddisfazione, in parti­colare per essere riuscito a por­tare, lo scorso anno, quel Lohengrin, un prodotto di altissimo li­vello tecnico, in un posto dell’Italia considerato poco adatto a manifestazioni cultura­li di rango. Si è trattato di uno dei migliori spettacoli che siano stati prodotti  nel nostro  paese. Un grandissimo coro, come quello di Bayreuth, una gran­dissima orchestra, come la Philharmonia, un grandissimo cast sono stati gli ingredienti di uno spettacolo prodotto in Sici­lia. Questo mi riempie di orgo­glio.

E non si può dire che l’iniziativa sia funzionata solamente per merito di coro, orchestra, cantan­ti, oltre a Wolfgang Wagner e a me, perché è stato determinante l’apporto delle forze del posto. Questo Festival, fatto da siciliani, è una cosa sorprendente. Wolf­gang Wagner mi diceva che se a Bayreuth potessero disporre di un simile staff, la loro attività funzionerebbe ancora meglio di quanto già non succeda.

Dal punto di vista puramente emozionale e spirituale, esiste il fascino di tornare in un luogo come un teatro greco, dove si ricreava il mondo, dove la trage­dia che veniva recitata aveva sostituito la manifestazione dei Misteri, i quali a loro volta avevano sostituito la comprensione dei simboli. La decifrazione dei valori simbolici, con il diminui­re della conoscenza, si era tra­sformata nel mito e quindi nel rito. Dal rito si è poi passati ai Misteri e quindi alla tragedia. Ciò che ha condotto dalla comprensione dei simboli alla trage­dia è un processo di progressivo oscuramento del sapere. Rifare della musica  in un luogo come il Teatro Greco di Taormina, de­stinato al recupero del sacro, come gli altri teatri, è un’ esperien­za affascinante.

Giuseppe Sinopoli in una foto scattata durante un suo recente soggiorno in Giappone con il figlio.

Come ricorda, a un anno di distanza, il Suo debutto alla Sca­la, in un concerto con la Filar­monica dedicato a Strauss?

È stato un avvenimento che mi ha toccato in modo particolare. Al punto che preferisco lasciar passare parecchio tempo, prima di ripetere l’esperienza. Ritor­nerò sul podio della Scala, con la Filarmonica, solamente  il prossimo anno. Tale avvenimento è stato molto importante, per tutta una serie di ragioni. Ciò che mi ha commosso  di più a Milano, è stata la libertà, la di­sponibilità mentale del pubbli­co, che ha reso possibile tale successo. Molti milanesi prima di quel momento, anche se non mi avevano mai visto dirigere alla Scala, probabilmente mi co­noscevano già attraverso i di­schi e i concerti in altre parti del mondo. Spesso trovo dei mes­saggi in camerino, o incontro persone che vengono a salutare, a Londra, a Vienna, a Berlino o a New York. Quando sono ita­liani, si tratta solitamente di mi­lanesi. Ciò che mi ha profonda­mente toccato, nell’incontro con il pubblico della Scala, è stata la grande disponibilità a entrare in contatto con il mio modo di pensare la musica, di fare la musica. L’ho capito in particola­re da quei silenzi assoluti du­rante l’esecuzione, dal modo di essere delle persone che si trovavano in sala. Era come se ci fossimo già incontrati, come se ci co­noscessimo da sempre. E’ mera­viglioso accorgersi che si è ap­prezzati per quello che si è e che il pubblico ascolta al di fuori di qualsiasi preclusione e precon­cetto.

Finora Lei si è espresso attra­verso la composizione e la dire­zione d’orchestra. Recentemente si è dedicato alla saggistica. Il Suo libro, Parsifal a Venezia, è la narrazione di un ampio per­corso mentale, legato a un’espe­rienza affascinante come la di­rezione dell’opera wagneriana a Venezia nel 1989. Come è nata l’idea di scrivere Parsifal a Venezia?

Il saggio è nato durante il perio­do delle prove e delle esecuzio­ni di questo Parsifal. Non si può dirigere una tale opera semplicemente pensando solo alla mu­sica: molti altri aspetti devono essere tenuti presente. Bisogna pensare alla bugia contenuta nel Parsifal wagneriano, e alla grandezza di quest’opera. La bugia è legata a quel sentimento di disfacimento intellettuale, che era quello che dava a Nietzsche i motivi per giudicare Parsifal come una materia da operetta. La grandezza si deve all’enor­me e irragiungibile livello espressivo della musica wagne­riana. Secondo Nietzsche, anche a persone di conoscenze superiori, Il Parsifal riusciva difficilmente comprensibile.

Parsifal si muove dunque nell’ambito di questo rapporto am­biguo fra bugia e verità, fra morte e vita. Esso si riflette da una parte nella dimensione sa­crale del tempo, che è propria della musica del Parsifal, e dall’altra nel contenuto triste, grigio, pesante, pervaso da un fastidioso senso di colpa e di ri­morso, in netto contrasto con la solarità travolgente della mito­logia del Parsifal prima di Wa­gner. Proprio  la  constatazione di questa ambiguità, di questa proiezione della mitologia del Graal nell’ambito di una visione cristiana, mi ha guidato a riflet­tere sul concetto di rinascita che le è proprio. La simbologia del­la lancia e la simbologia della coppa, così tipiche della rinasci­ta, trovano dei riferimenti, di­retti e  indiretti,  nella  struttura di Venezia, nelle sue pietre, nel­le calli, nei sottoporteghi. Il li­bro è nato, quindi, perché mi sono trovato a vivere in una si­tuazione esteriore e interiore dominata da quest’idea della ri­nascita e dai suoi simboli.

a cura di Fernando De Carli

Giuseppe Sinopoli in una foto giovanile che lo ritrae nella sua casa di Messina mentre suona al pianoforte un brano wagneriano.