Giuseppe Sinopoli, gli anni della Scala

Giuseppe Sinopoli, gli anni della Scala
di Paolo Arcà

Ho avuto il privilegio e la fortuna di essere stato amico personale e fraterno di Giuseppe Sinopoli per circa vent’anni, e, contemporaneamente, Direttore artistico del Teatro alla Scala negli anni in cui Giuseppe mise a disposizione le sue energie e il suo talento per il teatro milanese.
Il suo contributo alla cultura e alla musica, italiana e internazionale, ha inciso un segno profondo, consegnando un lascito che, pur con il passare del tempo, continua a mostrarsi peculiare e innovativo.
Per delineare un profilo completo di Giuseppe Sinopoli bisogna in primo luogo ricordare il suo tratto non convenzionale di musicista profondamente immerso in molteplici ambiti della cultura umanistica e scientifica. Sinopoli fu compositore e direttore d’orchestra, ma anche medico specializzato in psichiatria, archeologo, studioso del pensiero filosofico classico ed esoterico, studioso del mito in tutte le sue forme, letterato e narratore originale e visionario.
Giuseppe è stato una figura complessa di uomo di cultura, un vulcano di creatività, unico nella sua capacità di mescolare e fare interagire suggestioni diverse, scaturite da ambiti di pensiero in apparenza lontani, aprendo prospettive nuove e impensate. Ma al centro di questo vortice di pensieri, rimaneva sempre la musica, di cui egli sapeva parlare in modo affascinante. Vale la pena di rileggere una sua riflessione in proposito:
La musica è quantità e misura nel periodo in cui viene composta o nell’attimo in cui lo strumento stimolato dal musicista la produce. Qui si compie un salto misterioso: quello che noi ascoltiamo è immateriale, e nell’attimo in cui lo percepiamo, sparisce per diventare memoria. La musica è il segno più sublime della nostra transitorietà. La musica, come la bellezza, risplende e passa per diventare la memoria, la nostra più profonda natura. Noi siamo la nostra memoria.

E poi in un altro scritto:
Il miracolo della musica sta proprio in questo: di essere come una luce che entra in tutti gli spazi del tempio della nostra anima.

Da tutto il suo percorso emerge il segno di un umanesimo totale, che pone al centro l’indagine sull’uomo, esplorando anche zone oscure della psiche, o conoscenze iniziatiche ed esoteriche, come si evince leggendo i suoi libri. Ricordo, per esempio, nel periodo in cui dirigeva Ariadne auf Naxos alla Scala, una lunga serata a casa nostra con Giuseppe che ci parlava della “teoria degli infiniti mondi” di Giordano Bruno, un autore che in quel momento lo appassionava. E anche le scelte del musicista hanno sempre messo a fuoco un ambito di repertorio che portasse a galla le perenni contraddizioni della condizione umana. Ne è significativa testimonianza il suo lascito interpretativo, come pure il cammino immaginato per i suoi appuntamenti da direttore ospite al Teatro alla Scala, un progetto purtroppo interrotto da una morte inaspettata e crudele.
Con Giuseppe alla Scala abbiamo condiviso tanti progetti e tanti risultati, in una storia che si è dipanata dal 1991 fino al 2001. Fissiamo allora i punti fermi dell’esperienza scaligera. Giuseppe Sinopoli ha debuttato alla Scala come direttore d’orchestra il 27 maggio del ’91, con un concerto con la Filarmonica della Scala e un programma interamente dedicato a Richard Strauss. La sua prima presenza scaligera era stata però come compositore: era il 28 di marzo 1974, Giuseppe aveva 27 anni e la London Sinfonietta diretta da Kerry Woodward eseguiva alla Piccola Scala, in prima esecuzione assoluta, i suoi tre pezzi tratti da Souvenirs à la memoire. Anche come direttore aveva già debuttato a Milano l’8 marzo 1988 con un concerto per la Società del Quartetto al Conservatorio, con la Philharmonia Orchestra di Londra e musiche di Schumann e Mahler.
Il 1991, dunque, è l’anno del debutto scaligero di Sinopoli come direttore in un concerto con la Filarmonica: era il 27 maggio, ed io c’ero. Presi il treno da Roma per venire a sentire quel concerto come amico di Giuseppe, un amico musicista che voleva essere con lui in uno snodo importante della sua carriera, certo non immaginando che pochi anni dopo, nello stesso teatro, le nostre vite si sarebbero intrecciate ancora più strettamente, io come Direttore artistico della Scala e lui come direttore ospite regolare, all’interno di un progetto che prevedeva un’opera all’anno. Alla fine di quel concerto del 27 maggio una voce dal loggione gli gridò: “Torna presto!”, quasi un annuncio di quel rapporto spontaneo e forte che si instaurò tra Giuseppe e la Scala, non soltanto con l’orchestra ma con l’intero Teatro e con il pubblico, difficile ma generoso, della città di Milano.

Dal 1991 al 2001, anno della sua scomparsa, Giuseppe ha diretto alla Scala 14 concerti, di cui dieci con la Filarmonica della Scala, tre con l’orchestra Staatskapelle di Dresda e uno con i Wiener Philharmoniker, proponendo un repertorio che comprendeva musiche di Strauss, Schoenberg, Bruckner, Wagner, Mahler, Zemlinsky, Schumann, Liszt, Brahms, Schubert, Beethoven, Haydn.
Ma, soprattutto, Giuseppe ha diretto alla Scala cinque memorabili titoli operistici: Elektra di Richard Strauss (1994, in una nuova produzione con la regia di Luca Ronconi), La fanciulla del West di Giacomo Puccini (1995, nello spettacolo di Jonathan Miller, portato poi dalla Scala nella tournée in Giappone del settembre di quell’anno), Wozzeck di Alban Berg (1997, in una nuova produzione con la regia di Jurgen Flimm), Die Frau ohne Schatten di Strauss (1999, in un allestimento, già esistente e bellissimo, di Jean-Pierre Ponnelle), Ariadne auf Naxos di Strauss (2000, in una nuova produzione con la regia di Luca Ronconi); quest’ultimo titolo venne proposto nell’ambito della stagione scaligera di apertura del nuovo millennio, tutta dedicata al teatro musicale del Ventesimo secolo. Un mese dopo la sua morte, tra maggio e giugno 2001, avrebbe dovuto dirigere Turandot di Puccini, in un nuovo allestimento di Keita Asari. Non gli fu possibile.
Il progetto di Sinopoli alla Scala, fu elaborato in profonda sintonia tra Giuseppe, me e il sovrintendente Carlo Fontana, ed era stato pensato come un cammino coerente fino al 2005. Dopo Turandot Giuseppe avrebbe dovuto dirigere altri tre titoli straussiani, e cioè Salome nel 2002, Rosenkavalier nel 2003, Capriccio nel 2004, fino all’approdo wagneriano, con Tristano e Isotta nel 2005. Si trattava, dunque, di un progetto molto coeso, che aveva il suo perno in Richard Strauss; metteva al centro l’esplorazione della Mitteleuropa austro-tedesca; includeva Puccini, così restituito a pieno titolo alla sua dimensione più autentica e innovativa di autore profondamente legato alla cultura europea; toccava la scuola di Vienna con Berg; culminava con Wagner che, con le sue opere, aveva generato il processo di trasformazione da cui è nata la musica del Novecento. Questa coerenza di disegno interpretativo è anche confermata dai tanti concerti che Giuseppe ha diretto alla Scala, con la preponderanza del repertorio sinfonico mitteleuropeo in programmi che presentavano le opere più significative di Strauss, Wagner, Mahler, Schoenberg, Bruckner, Zemlinsky, Schumann, Liszt, Brahms, fino a toccare, in un percorso a ritroso, anche la Vienna di Schubert, Beethoven, Haydn.
Da questa presenza assidua, da questo legame forte con il Teatro, sviluppatosi e consolidatosi anno dopo anno, appare chiaro che Giuseppe stava ponendo, nei fatti, la sua candidatura alla successione di Direttore musicale della Scala, quando Riccardo Muti avesse deciso di ritirarsi, dopo un ventennio di Direzione musicale.
Tengo anche molto a ricordare che, quando Giuseppe arrivava in teatro, non era l’arrivo di un qualunque direttore ospite; si diffondeva un fermento, una fibrillazione particolare. Giuseppe arrivava in portineria, salutava, e immediatamente cominciava la processione nel suo camerino dei maestri collaboratori, degli archivisti, dei professori d’orchestra, dell’ufficio produzione, proprio per quel particolarissimo tipo di magnetismo, di forza che Giuseppe trasmetteva e che si traduceva nel saper dare fiducia e affetto a chi lavorava con lui, ottenendo impegno e dedizione. Questo clima positivo di comunanza di intenti, amichevole e costruttivo, caratterizzava tutte le fasi delle prove.
Questo, dunque, è stato il senso del mio lavoro con Giuseppe alla Scala: un percorso interpretativo aperto alla discussione e all’approfondimento, nel quale costruire la musica e gli spettacoli corrispondeva a una gioia e a un’esaltazione sempre entusiasmante.
Poche parole sull’interprete, di cui si potrebbe parlare moltissimo. Una categoria che Giuseppe utilizzava spesso, anche a proposito della direzione d’orchestra, era quella della contrapposizione tra apollineo e dionisiaco. L’esperienza direttoriale di Giuseppe rientrava pienamente nel momento dionisiaco. Impeto, energia trascinante, bagliori drammatici, suoni affilati come lame d’acciaio, ma anche, improvvisamente, abbandoni e squarci lirici struggenti erano i suoi caratteri direttoriali più tipici. L’ascoltatore veniva scosso, quasi rapito, e non gli era consentito di rimanere placidamente appagato dalla sola bellezza del suono.
La sua scomparsa ci ha lasciato tutti più poveri, e la perdita del grande direttore e dell’uomo di cultura, pesa moltissimo nella vita musicale di oggi. In un momento di profonda crisi, in cui tutti sentiamo la necessità di nuove progettualità, la ricchezza delle sue idee e degli stimoli intellettuali che sapeva offrire ci manca enormemente. Giuseppe, però, resta tra noi grazie al lascito di quello che ha fatto, ha scritto, ha diretto, e ci è sempre vicino, nella memoria, come compagno di strada.
Alla fine di questo ricordo, che è prima di tutto una testimonianza di affetto e di rimpianto, desidero ricordare il suo sguardo, il lampo di vivacità negli occhi azzurri sopra gli occhiali quando proponeva un’idea diversa e inconsueta, che – sapeva bene – ci avrebbe obbligati a rimettere in discussione le nostre abitudini e le nostre certezze.