Giungemmo nell’Eolia

Da diverso tempo mio padre era alla ricerca di un luogo dove riposare a seguito delle faticose  tournée in giro per il mondo. Aveva bisogno di trovare un posto dove la presenza dell’uomo fosse limitata, se non addirittura annullata, e predominante quella della natura. Fu così che nei primissimi anni novanta, alla fine del festival Taormina Arte, dove aveva concluso la messa in scena di un indimenticabile Lohengrin in collaborazione con la Festspielhaus di Bayreuth, mio padre decise di prolungare il soggiorno siciliano con una breve vacanza nell’arcipelago delle Eolie.
Ricordo il suo sguardo durante quel primo viaggio in aliscafo; era impressionato dalla bellezza e dalla forza sprigionata da quelle isole: avrebbe voluto visitarle tutte, ma il tempo a disposizione era purtroppo ridotto. Dopo quattro giorni, infatti, sarebbe ripartito per l’estero, dove lo attendeva la sua orchestra di Dresda.
Siamo scesi quindi a Lipari e abbiamo soggiornato all’hotel Meligunis, ubicato nel centro storico del villaggio. Dalla terrazza dell’albergo che predomina sul paese, era possibile ammirare il piccolo porto dei pescatori di Marina Corta, l’imponente rocca ed il castello; come narrato nel X libro dell’Odissea:

Giungemmo nell’Eolia, ove il diletto

Agl’immortali Dei d’Ippota figlio,

Eolo, abitava in isola natante,

Cui tutta un muro d’infrangibil rame,

E una liscia circonda eccelsa rupe.

Visitando il Museo Archeologico “Luigi Bernabò Brea”, Sinopoli ebbe modo di farsi raccontare la storia dell’isola direttamente dai reperti delle antiche civiltà che la abitarono, in particolar modo quella greca. Mio padre stava ritrovando a Lipari tutto ciò che a lui era più caro: i ricordi della Sicilia Orientale maturata da ragazzo (il padre era messinese), l’amore per la natura, e il richiamo alla nuova e felice passione per il mondo antico. Senza tante cerimonie abbiamo preso un taxi e fatto immediatamente il giro dell’isola, con l’intento di trovarvi una casa dove un giorno potersi rifugiare. Sua volontà era, infatti, quella di ritirarsi gradualmente dalle scene e dedicare il suo tempo agli studi letterari e all’archeologia. Diceva di voler rimanere a Lipari sei mesi all’anno, passando gli altri sei nella sua casa in Umbria con la famiglia.
Giungemmo in cima ad una collina selvaggia, provvista solo di una vecchia strada mulattiera abbandonata, nella Contrada del Cappero. Da lì era possibile ammirare a trecentosessanta gradi un paesaggio unico e affascinante che teneva in sé tutti e quattro gli elementi primordiali. La collina su entrambi i versanti è circondata dal mare e agli antipodi nord e sud si vedono due vulcani: Stromboli e Vulcano. Fu proprio in questo posto che acquistò un vecchio rudere e lo restaurò, seguendo delle idee ben precise, suggerite da una sua “necessità inderogabile” (come descritto nel suo libro “I racconti dell’isola” edito da Marsilio); ricostruire un ambiente che fosse fedele alla natura dell’isola quando era abitata dagli antichi greci.
Man mano che il progetto prendeva forma nella sua mente, mi parlava di quando le isole erano ricoperte da una folta vegetazione boschiva e numerose terrazze in pietra erano destinate alla coltivazione. La casa doveva possedere un’architettura lineare, essenziale, memore dello stile tradizionale di Lipari, ma anche ricca di simboli consoni alla straordinaria situazione del luogo. Alla sua casa diede il nome di Casa Aristaios, lo stesso nome della sua collezione archeologica, ora in mostra permanente nel foyer della Sala Sinopoli al Parco della Musica di Roma.
Tornare a Lipari significa, ogni volta, situarsi, trovare il situm, il luogo privilegiato” così scriveva nel suo quaderno di racconti dedicati alle isole, dimostrazione di un legame forte e profondo con quei luoghi e con i suoi abitanti.