Così parlò L’EROE CADUTO A BERLINO

 Il nostro colloquio, e non potevo certo immaginare che sarebbe stato l’ultimo , inizia  proprio dal Cavaliere della Rosa, che Sinopoli avrebbe dovuto affrontare a Torino, in forma di concerto, con l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai.

“La commedia, nel Rosenkavalier è tale per ossimoro, per paradosso, per contraddizione, è il buio  nella  luce , ossia  è  la situazione del dramma satiresco. Nel momento in cui, nell’antico teatro greco, la tragedia, il sangue, il problema, il dolore diventano eccessivi, per cui l’impatto con l’aspetto esteriore diventa superiore al messaggio che dal dolore o dal sangue può essere trasmesso, i greci sentivano il bisogno di creare il dramma satiresco, in cui sul dolore dell’eroe, apparentemente, si rideva. La stessa cosa succede sia nel Cavaliere della Rosa , sia ne llArianna . Il gioco della commedia, il gioco delle maschere o della società è un gioco  leggerissimo  che  nasconde  però  il  senso  della  perdita.  Nel Cavaliere, musicalmente, accade che i momenti maggiormente dolorosi, di grande tragedia (i monologhi della Marschallin, per esempio, oppure il senso di estrema melanconia nei duetto tra Ottavian e Sophie) arrivino dai ‘pianissimo’. Tra l’altro, proprio in questi duetti, le voci, volutamente, arrivano a confondersi, a sovrapporsi, non si capisce più chi è Ottavian, chi è Sophie, le voci si riecheggiano l’una nell’altra, non si sa più chi ama e chi è amato; non si capisce nemmeno se l’amore è monodimensionale o bidimensionale, e qui veramente il concetto di androgino trova una delle sue realizzazioni più alte. C’è inoltre un sottilissimo gioco di specchi: Ottavian  è la proiezione di Sophie, o è Ottavian ? Ancora, Ottavian è la proiezione del desiderio della Marschallin, o è Ottavian? Allora, se è la proiezione del desiderio, può essere femminile, ma forse Ottavian è uno specchio, che posto di fronte alla Marschallin diventa l’immagine di costei diciassettenne, ossia in una situazione preefebica,  prima dell’iniziazione , vale a dire dell’ingresso in società. Hofmannsthal non è un ingenuo: se Ottavian avesse avuto diciannove anni, il discorso sarebbe stato diverso. Ma se questo specchio (Ottavian) viene cantato da una voce femminile, abbiamo non un personaggio reale, bensì la proiezione del desiderio”.

In questo senso tu rilevi la continuità tra le prime due opere, dalle violentissime modalità espressionistiche, vale a dire Salome ed Elektra, e il terzo frutto della collaborazione Strauss/Hofmannsthal, cioè il Rosenkavalier?

“Come ti dicevo prima Hofmannsthal  attua  un procedimento  molto simile a  ciò che nel teatro greco avviene tra tragedia  e dramma satiresco.  Dunque, l’elaborazione  della  perdita, che è vista in Salome ed Elettra in forma tragica, viene , nel Rosenkavalier e nellArianna , spostata da Hofmannsthal verso una forma più leggera ma  che ha  ragioni analoghe  alla  tragedia. Il teatro delle maschere italiane nella  Arianna non è altro che il teatro della società alto borghese e  nobiliare  viennese  del  Rosenkavalier; quindi, l’inizio del terzo atto del  Cavaliere  della  rosacon il gioco delle maschere e degli specchi, è una chiave di lettura incredibile perché dimostra che l’amore non è possibile né per Ochs né per la Marschallin. Se è apparentemente possibile per Sophie, però non  riusciamo  a capire  fino in fondo a chi sia  rivolto  questo amore, che  probabilmente è rivolto solo a se stessa , al suo ‘specchio’ (Octavian); nei duetti ciò non è affatto chiaro, dato che i contorni sono volutamente indecifrabili. Sophie, dunque, entra con la sua voce in una  sorta di labirinto, la sua voce riecheggia, prende percorsi diversi, ma il labirinto è unico: così apparirà anche nella Arianna a Nasso.

Sotto l’aspetto musicale, quali sono le caratteristiche salienti del Cavaliere della Rosa?

“Il Cavaliere della rosa deve dimostrare ad ogni nota una grande leggerezza, specie nei momenti  del  secondo  atto  dove  c’è  veramente la commedia. Ma i valzer, che incarnano l’ambiguità di una società che si identifica apparentemente in quel modello (del valzer), sottintendono quel che Otto Weininger pensava di essi, ossia nascondono il cerchio della morte. Il valzer di Richard Strauss non è quello di Johann Strauss; l’articolazione del periodo è sempre asimmetrica, per cui il valzer subisce una leggerissima estraniazione che nasce dall’interno della sua forma e che lo rende non reale, visionario , ossia irreale: bisogna evidenziare questa irrealtà”.

Anche la prossima opera che dirigerai, questa volta in forma scenica (la Turandot di Puccini), è intessuta di morte…

“La Turandot possiamo dividerla in due ambiti, quello degli affetti e quello della loro negazione, che si può chiamare Cina (o che qui viene chiamato Cina) e che prende delle apparenze etniche’ con scale  pentatoniche  o esatonali che no però assolutamente secondarie. Non c’è u esercizio su stilemi esotici, ma questo è un modo come un altro per diversificare drammaturgicamente una situazione. Tutto sommato, se c’è rmai  una drammaturgia degli affetti nel lessico musicle, si può dire che quello pentatonico diventa lessico dei non affetti; esso, spostato in altre direzioni , si trasformerà, come in Debuss y ( Pe lléa.s et Mélisande), nella rarefazione totale degli affetti, che non sono più di tipo emotivo ma di tipo estetico. E quindi una tecnica analoga diventa in Debussy non un aspetto esotico ma un aspetto estetico, ossia limitato alla superficie della pelle che in quel periodo storico non era segno di superficialità ma equivaleva alla decorazione di Klimt, la quale sostituiva il contenuto (e non a caso Nietzsche accusava i tedeschi del loro Tief, del loro profondo). Abbiamo dunque un Turandot che è all’apice di questa  struttura dei non affetti, che è a sua volta l’apice della Cina dei non affetti: spessissimo il coro è dietro le scene per cui il popolo, che è in ogni caso un’entità degli affetti e dell’emozione, è portato dietro le quinte, velato. Dall’altro abbiamo le  maschere che per me va letto come una firma del Novecento, con una raffinatissima orchestrazione. È molto interessante esaminare l’orchestrazione delle maschere (Ping, Pong e Pang, ndr), con queste leggerissime e continue varianti timbriche, che passano dalla celesta allo xilofono, all’arpa, ma nella stessa struttura del periodo e della situazione armonica (o molto simile) con questa sistematica variante timbrica, in aspetti minimali, veramente millimetrici. Qui, in effetti, è come se si iniziasse a pensare a una Klangfarben melodie . Queste sono come delle maschere di maiolica, anche loro rappresentano i non affetti, dato che anche ciò che dicono incarna formule di decorativismo miniaturistico e in tal modo vanno eseguite: dove nasce il manierismo finisce il grande impatto emotivo. Turandot, poi, rappresenta la morte, la morte dalle grandi ali di velluto della quale parla Tagore in una delle sue ultime, splendide poesie; nel momento in cui Calaf si consegna coscientemente a lei (quando dice ” Tu hai vinto” e poi smette di cantare) è pur vero che la principessa dice al padre  “Il nome  suo è  amor”, ma noi sappiamo che amore vuol dire morte. L’amore è stata allora la chiave con la quale Calaf  si concede alla morte, per concedersi agli enigmi. È la razionalizzazione del suo impulso suicida, che è reazione alla perdita del potere, della visibilità, alle quali in un secondo momento si aggiunge quella degli affetti, ossia di Liù e del padre”.

 

Parlando di Puccini citavi Strauss e Debussy: lo inserisci nella grande fase di cambiamento della cultura europea?

“È la tesi che ho sempre sostenuto da quindici anni a questa parte, da quando ho iniziato a dirigere e incidere Puccini, ossia Manon Lescaut, Bohème o Buttefly. In effetti c’è in Puccini una tendenza innovativa, che nell’ambito del melodramma italiano è strepitosa, anche se vista nel panorama europeo è limitata. Noi dobbiamo pensare che non siamo in Germania, siamo in Italia: se pensiamo che in cinque anni abbiamo il Cavaliere della rosa , la Donna senz’ombra e l’Arianna e devono passare otto anni prima che appaia la Turandot, ci rendiamo conto che i territori sono diversi. Ma se pensiamo che quando Puccini scrive la Manon Verdi scrive il Falstaff , ci rendiamo subito conto, dall’orchestrazione, dalle armonie utilizzate, dall’articolazione del  periodo, dalla forma utilizzata, gli abissi dal punto di vista del materiale che passano tra Manon e Falstaff , appunto. Quindi, l’orchestrazione e le armonie del secondo atto di Manon sono un pianeta diverso, rispetto al Falstaff: va aggiunto, però, che rilevare la diversità oggettiva dal punto di vista del materiale non significa sancire la superiorità della Manon rispetto all’estrema opera verdiana. Il Falstaff , anzi, raggiunge delle vette inaudite perché all’interno di quel materiale già consunto si riesce a mettere in evidenza l’aspetto appunto consunto di questo materiale che diventa in Verdi biologia dell’espressione: quella del Falstaff è irripetibile, un’esperienza talmente alta che Puccini non riuscirà, neppure con la Turandot e uguagliare. Mi spiego. Il materiale che Puccini utilizza nella sua ultima opera non è un materiale strepitosamente diverso da quello che utilizza nella Manon: il mondo è diverso, ma il materiale non è strepitosamente diverso. L’orchestrazione raggiunta nel secondo atto di Manon ha un impatto tecnico-emotivo molto più complesso di quello che avviene in Turandot. Le finezze dell’orchestrazione, che coincidono tra l’altro con quelle della Fanciulla del west, avvengono nei momenti meno appariscenti, appunto in quello delle Maschere, momento che, sotto l’aspetto del risultato musicale, è in questo caso minore anche a quello ottenuto in altre pagine della stessa Turandot. In ogni caso, il problema si presenta nell’analisi della relazione tra materiale, espressione e creatività all’interno di un materiale per esprimere qualche cosa”.

Tu parlavi prima di Manon,  di  Butteefly, di Bohème: citando Pedro Almodovar si potrebbe dire che sono tutte donne “sull’orlo di una crisi  di nervi”…

“Parlando del problema dell’emancipazione femminile, si potrebbe dire che – come sempre succede – nella cultura e nell’arte il tema viene affrontato con cinquanta anni d’anticipo. Il problema della donna viene affrontato  dagli  artisti, sia nella letteratura, sia nella pittura, sia nella musica, in maniera definitiva già dagli inizi del secolo, basti pensare alle  varie donne di Klimt,  ma anche ai titoli di alcune opere, per esempio Lulu, Pelléas et Mélisande (che io preferisco chiamare Mélisande et Pelléas ) , pensiamo ad Elektra, Salome, alla Donna senz’ombra, alla Donna silenziosa, all’ Arianna a Nasso, alla Elena egizia, capiamo allora che si tratta di una investigazione sistematica sul femminile, e Puccini entra in questa categoria assolutamente europea. Se leggiamo i titoli delle sue opere, infatti, abbiamo Bohème, che possiamo chiamare Mimì, Tosca, Manon  Lescaut,  Madama Buttefly, Turandot: un’indagine sul femminile. E in effetti, questo problema aveva a che fare con un altro aspetto molto sentito all’inizio del secolo, ossia quello della decorazione, cioè della bellezza che non è più semplicemente  un fatto decorativo,  ma che diventa un aspetto vincolante, formale, determinante. Per cui, l’aspetto della decadenza del Novecento è legato alla bellezza, la quale diventa un problema di decorazione metafisica”.

Io vorrei ricordare che esiste un’altra opera del Novecento che indaga il femminile, una tua opera, la Lou Salome …

“An che quella, è vero.  (ride).  Ci  rimetteremo mano. .. spero nei prossimi anni.. vorrei rimetterci mano anche perché l’opera, che poteva essere eseguita, io l’ho ritirata dalla circolazione per rielaborarla: ogni tanto, a Lipari, mi trovo a sfogliarla e mi rendo conto che forse varrebbe la pena di rimetterci  le mani”.

Nel frattempo, però, tu hai portato a ter­ mine un corso di laurea in archeologia, con relativa tesi , a proposito della quale ti chiederei di spendere  due parole…

“Lindagine sul mondo antico è un’attivitàche  ha in fondo sostituito quella di compositore. Si tratta di compiere ricerche su un mondo i cui messaggi, i cui approcci con l’esistenza contengono stratificazioni oggi purtroppo irriconosciute, irriconoscibili, ma che però danno della vita una dimensione per me insostituibile; quindi non si tratta di un esercizio ginnico mentale, ma proprio  di un ‘esigenza. Questa mia tesi (che si intitola Il bit-Kilani come celebrazione della logica della regalità nel vicino oriente antico) è un lavoro in archeologia della Mesopotamia, una tesi che studia l’arte  partendo  da  un  problema  soprattutto  di tipo architettonico; ossia, mi domando cos’è un modello  architettonico; ossia, mi domando cos’è un modello architettonico che in Assiria, nell’ottavo e settimo secolo, era utilizzato nei palazzi reali dai re Assiri, prendendolo dalla Siria. Ma questo dato viene analizzato nelle sue ragioni più profonde, nelle sue origini che probabilmente vengono, secondo la mia analisi, dall’architettura templare, quindi abbiamo una trasmigrazione di certi modelli dall’area templare dell’ antica Mesopotamia all’area del palazzo regale, laddove i re, divinizzandosi, facevano migrare una formula architettonica tipica  dell’ambito templare  e a quello regale: da qui passo a studiare gli aspetti simbolici connessi a questa struttura architettonica assieme ai rilievi dell’ultimo palazzo assiro di Assurbanipal, rilievi che, attraverso il supporto dei testi, permettono di leggere una visione del mondo storico politico e religioso dell’epoca, che può portare un contributo alla migliore conoscenza di quel periodo. La discuterò alla fine di aprile, e come relatore avrò il professor Paolo Matthiae, un grande archeologo al quale sono legato da grande stima e profonda amicizia”.

Tra l’altro, se non erro, anche il padre di Wilhelm Furtwaengler era un archeologo di fama  mondiale…

“Certamente. In gioventù, soprattutto, s’era mosso nell’ambito della Grecia antica, ma anche in quello del vicino oriente, tanto è vero che nella bibliografia riportata in appendice alla mia tesi, cito uno dei suoi testi “.

 

di Carmelo Di Gennaro.