CON LA NONA VERSO L’ ASSOLUTO

BOLOGNA – Dritto e rovescio. La Sinfonia n. 9 di Beethoven, cioè il testo musicale più significativo e rivoluzionario per la storia del pensiero compositivo moderno, è stata offerta nel giro di pochi giorni in due letture che paiono fatte apposta per far discutere. I ‘ Concerti del Quartetto’ di Milano avevano ospitato alla Scala l’ esplorazione filologica di John Eliot Gardiner e di fidati esecutori in odore di santità antica. Il Comunale di Bologna l’ ha invece proposta come cuore della stagione sinfonica d’ autunno, in una lettura tumultuosa, dolcissima e utopica nel suono ostentatamente eroico e ricco: affidata a un direttore moderno, come Giuseppe Sinopoli, e ai propri complessi stabili. Secondo i catecumeni della fede nell’ antico, l’ unica modernità possibile è quella che deriva da una riflessione sulla matericità della partitura: riportata a ipotetica originalità ‘ fisica’ , le note dovrebbero risuonare fisiologicamente autentiche. L’ interprete moderno parte dall’ analisi del pensiero musicale, dalla riflessione su architettura e forma: da tale indagine fa derivare un’ espressione orchestrale. Sarebbe sciocco, lo scrivemmo quindici giorni fa, giudicare le due posizioni (o proposte) secondo criteri di inconciliabilità: se l’ obiettivo è far scoccare una scintilla profonda tra Beethoven e noi, i due mondi interpretativi sono complementari. Con altrettanta sincerità, tuttavia, va detto che la piena emotiva e poetica scatenata da Sinopoli faceva stingere nella memoria il sottile piacere intellettuale ricamato dall’ Orchestra Révolutionnaire et Romantique. Legata all’ esito dell’ eccitante concerto bolognese, proprio la pertinente resa strumentale. Da attribuire oltre che al direttore alla sorprendente immedesimazione beethoveniana dell’ orchestra e del coro preparato da Piero Monti. Gli strumentisti del Comunale di Bologna, chiamati da Sinopoli a un’ esecuzione tutt’ altro che prevedibile, hanno risposto con incisiva presenza esecutiva e grintosa consapevolezza interpretativa. Qualità decisiva affinché la lettura, febbrile fin dal gesto affermativo d’ avvio, ottenesse un’ evidenza degna. Dirigendo l’ ultima Sinfonia di Beethoven, Sinopoli fa intendere che la considera una sorta di totem musicale assoluto: fulcro e sintesi di un millennio di tecniche di linguaggio (non solo musicali: qui sono in gioco dialettica filosofica, vocazione teatrale e alla trascendenza espressiva) nonché sommo azzardo proteso verso il pensiero compositivo, e artistico in genere, di là da venire. L’ abbiamo avvertito, lancinante, nella calibrata pensosità e nella temperatura musicale torrida della ripresa (nell’ Allegro iniziale), nel sulfureo e vertiginoso Scherzo, e in tutto l’ ultimo movimento; in particolare nell’ incantata e fosforescente materializzazione della Marcia e nel contrastante clima convulso evocato dall’ episodio fugato a sola orchestra che precede il precipitante finale. La componente sentimentale – quella di Sinopoli e la nostra un po’ mortificata dall’ idea di allegretto di Gardiner – si prendeva compiute rivincite nell’ ‘ Adagio molto e cantabile’ : episodi forbiti con lirismo struggente, dolorosamente caricato e in progressione di fervore, seppure delineato con sottili increspature agogiche che sottolineavano la nitida episodicità espressiva legata allo scorrere delle variazioni. Ma tutto ardeva, incontinente, nella torrenziale cavalcata corale, tra l’ altro sorretta anche da un buon quartetto vocale formato da Inge Nielsen, Anne Gjevang, James Wagner e Alan Titus, eccellente nel solenne appello.
ANGELO FOLETTO