ALCUNE CONSIDERAZIONI SU OPERE FIGURATIVE

GIUSEPPE SINOPOLI E UN “ALTRO” COLLEZIONISMO:

ALCUNE CONSIDERAZIONI SU OPERE FIGURATIVE DELLA RACCOLTA’

di RITA DOLCE

Università di Roma Tre

Quando si tratta di collezionismo, la nota diversa che si coglie in questa raccolta di opere del Vicino Oriente antico sta negli intenti che ne hanno animato progetto e ricerca, e nei “segni” della storia dell’Uomo, solo apparentemente dispersi, e recuperati nello spazio e nel tempo da Giuseppe Sinopoli.

La definizione di “altro” collezionismo mi è parsa dunque utile per avviare qualche riflessione sull’esperienza culturale e storica che Giuseppe Sinopoli ha inteso percorrere attraverso le opere raccolte nel corso della sua vita. Infatti le definizioni di collezionismo e di collezione privata suonano in questo caso piuttosto improprie se si coglie il senso ultimo della appassionata ricerca che questo intellettuale a tutto campo ha condotto con limpida curiosità e, a tratti, con rapimento adolescenziale.

E al riguardo sono ancora convinta che la migliore definizione ce la offrì Sinopoli stesso, con una frase essenziale ed efficace: «Non colleziono pezzi, raccolgo idee»; e così si disponeva, con garbo e fermezza, alla domanda che spesso gli veniva posta sul “perché” del suo interesse per l’arte, nelle varie forme del linguaggio e del pensiero dell’Uomo, e sul “come” delle sue scelte in questo campo sterminato, dalla preistoria all’età classica.

L’intento della sua ricerca e della messa a fuoco di “idee” è stato costantemente quello di risalire alle radici del pensiero e di coglierle, quasi tattilmente, in questa e in quella testimonianza della creatività artistica: così nel Mito stanno le origini d’ogni Storia, nel Sacro sta l’asse portante e la struttura edificatoria dell’esistenza umana, e nella Regalità la proiezione terrena di un ordine cosmico.

Al centro dell’attenzione di Sinopoli non sono dunque le opere in sé quanto il loro valore significante e la loro storia: e ciascuna è sentita come traccia del pensiero umano alla ricerca della conoscenza (che nel mito ha il suo fondamento), del senso della vita e del rapporto con il Sacro. In questa prospettiva non fu un caso che Giuseppe Sinopoli avesse scelto per il progetto editoriale delle opere del Vicino Oriente antico il titolo di “É-Dingir”, il tempio certo ma anche il luogo della divinità, la terra ove gli dei decidono di porre la loro dimora e di abitare grazie al lavoro degli uomini, creati proprio a tale scopo.

La traccia che qui brevemente propongo attraverso qualche opera è quindi solo un modo per addentrarsi in quel complesso sistema di valori e di rappresentazioni delle culture del Vicino Oriente che traspare dall’ordito della raccolta.

I primi compiuti organismi urbani si riconoscono ancora (seppure non più esclusivamente) nel Paese di Sumer, nel sito di Uruk, le cui origini risalirebbero al mitico eroe Gilgamesh. È a questo tempo delle culture del Vicino Oriente che Sinopoli ha guardato, tra l’altro, con la coppetta in calcare fine, a tratti ancora lucente (come sui corpi degli animali), scolpita a rilievo e a mezzo tondo (Fig. 1).

Si tratta di un arredo cultuale ove tre capridi (degli ibex) dall’esuberante palco di coma aggettanti così come il muso campiscono la superficie esterna, punteggiata da altrettante rosette lungo

l’orlo.[S. 89 (abbreviazione per Collezione Sinopoli n. 89); h. 8,3 cm; diam. 7,3 cm (esclusi gli aggetti); diam. base: 2 cm; manufatto intero, con modeste scalfitture.]

Della connotazione cultuale e della sua possibile collocazione in un luogo sacro ci parlano i soggetti e la loro composizione, l’enfasi posta su alcuni elementi degli animali e sulla “rosetta”, che evoca la dea Inanna, dea dell’amore e divinità poliade di Uruk.

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Sull’ambito originario dell’opera possiamo al momento constatare e far notare che corrispondenze tipologiche, compositive e direi concettuali ci conducono prioritariamente proprio al sito di Uruk/Warka intorno alla fine del IV millennio a.C.

Ci riferiamo ai frammenti di coppe da Uruk (Figg. 2 e 3) ma anche al vaso in clorite da Ur (Fig. 4); e infine alla coppa ancora integra, davvero assai prossima alla nostra per tipologia, dimensioni, ed ornato (Fig. 5).

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La presenza tra queste opere di riferimento qui proposte, delle quali alcune rinvenute ad Uruk e ad Ur e datate tra la fine del IV e gli inizi del III millennio a.C., anche di esemplari in clorite investe la probabilità che manufatti di pregio in tali materiali raggiungessero la Bassa Mesopotamia dal loro ormai noto centro di produzione nella lontana regione del Kerman nell’odierno Iran (in particolare la valle di Jiroft), fin dallo sviluppo di Uruk urbana.

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Questa circostanza, se ulteriormente supportata, avvalorerebbe storicamente relazioni e scambi tra le due regioni e culture come è tramandato dal poema mitico “Enmerkar e il Signore del Paese di Aratta” già prima della documentata diffusione del pregiato vasellame iranico su tutta la Mesopotamia nel pieno III millennio a.C.

Nella rinnovata società del III millennio a.C. di Mesopotamia ove l’assetto territoriale e politico è costituito dalle città-stato, organismi autonomi, attivi e in conflitto permanente tra loro, e il Palazzo e il Tempio sono ormai centri distinti di potere, la figura dell’orante, sia maschile che femminile, ricorre diffusamente nei numerosi luoghi di culto disseminati nel tessuto urbano, le “case del dio”, ora accessibili più direttamente e frequentate da una più ampia fascia di fedeli che nelle classi elitarie diventano committenti di statue e di doni votivi al dio.

Ad uno di questi cittadini abbienti appartiene la statua maschile in calcare anepigrafe e priva della testa, nella postura dell’orante di fronte alla divinità [S. 20 (abbreviazione per Collezione Sinopoli n. 20); h. max. 34,5 cm; largh. (spalle) 15 cm; testa mancante di netto, scalfitture e mutilazioni sul torso e le braccia, fessurazioni diffuse. Collezione G Sinopoli. ] (Figg. 6, 10).

Nonostante i guasti subìti (fessurata in vari punti e frammentaria) soprattutto alle braccia e alla base dove nella nicchia si riconoscono le tracce dei piedi, l’immagine mantiene un tono di austero raccoglimento, con le mani disposte nel classico gesto di preghiera e il corpo eretto e come appena proteso verso la divinità – la “statua vivente” – dalla quale dipende il destino e la sorte degli uomini (Fig. 6c).

Dalla resa del corpo e dal tipo di abbigliamento vi riconosciamo l’orante della metà del III millennio a.e., in termini storico-culturali della III fase protodinastica, dal Paese di Sumer alla valle del Diyala; dai dettagli delle dita lunghe e affilate e dalle braccia di misura sproporzionata rispetto al busto (Fig. 6a) stabiliamo corrispondenze con oranti eccellenti, da Lagas fino a Mari.

I caratteri appena richiamati, così come il trattamento della base, a nicchia, ricorrono infatti nella immagine del sovrano Entemena (Enmetena) di Lagas (Fig. 7) e nella statuaria della capitale sull’Eufrate, Mari, al tempo della Ville Il, di cui proponiamo qui a titolo esemplificativo il re Iku(n)-Samagan (Fig. 8) e soprattutto il funzionario Nani (Fig. 9) per la corrispondenza delle dimensioni.schermata-2016-12-15-alle-20-31-21

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A queste sculture si aggiungono alcune delle statuette provenienti da un deposito rituale/favissa rinvenuto a Mari di recente alla base del Massif Rouge, deposte prima della (ri)costruzione del grande Tempio del “Seigneur du Pays”.

Richiamo infine l’attenzione sul fatto che l’iscrizione sulla statua di Entemena che lo qualifica e che celebra le costruzioni per gli dei della sua città è apposta in patte sull’omero destro (Fig. 7a) e sul dorso (Fig. 7b), corrispondenti alle zone del nostro orante (Fig. 10) più marcatamente colpite e mutilate (particolarmente l’omero destro): forse per cancellare e sfregiare l’identità e la memoria del personaggio rappresentato?

Una tale pratica, pur nota da tempo, è oggi al centro della ricerca avviata da P. Butterlin su tutta la statuaria di Mari e sta delineando fondatamente la frequenza sistematica di mirate e violente mutilazioni di parti di decine di statue dei cittadini/fedeli al momento della distruzione e del saccheggio della città.

L’orante anonimo è così l’icona del cittadino sumerico di classe elevata, nel pieno floruit della cultura urbana e al contempo il testimone di quel sensibile cambiamento avvenuto nella società nel corso di circa un millennio nel rapporto tra il fedele ammesso al tempio e il suo dio.

Linguaggio per eccellenza delle culture arcaiche vicino-orientali è certo il sigillo cilindrico, mezzo innovativo apparso all’età di Uruk per garantire sigillature di beni e di spazi nella complessa gestione centralizzata delle risorse e supporto al racconto per immagini del mito, del sacro e delle azioni degli uomini per circa tre millenni.

Ed un consistente numero di sigilli cilindrici mesopotamici e siriani trova posto nella “raccolta di idee” di Sinopoli.

Uno degli esemplari più interessanti, realizzato in steatite, è completo sebbene molto usurato, e corredato da un’iscrizione[S. I 06 (abbreviazione per Collezione Sinopoli n. I 06); h. 3,2 cm; diam. 1,5 cm; foro passante per la sospensione; tracce di usura soprattutto nella parte inferiore. Analisi e commento dell’opera attengono prioritariamente l’apparato figurativo, iconografico e compositivo, rimandando al contributo di M.G. Biga in merito all’iscrizione.] (Fig. 11 a e b).

L’immagine che vi si snoda riguarda un eroe con la tipica capigliatura a sei riccioli e un toro androcefalo in lotta con un leone-grifone alato, riservando così al mondo mitico-epico l’intero tema maggiore.

Sormonta la composizione una stella a sei raggi inscritta in un crescente, mentre soggetti minori, umani e non, compaiono nella parte inferiore; infine, l’iscrizione su tre colonne occupa circa un terzo del campo figurativo (Fig. 11 b).

Senza entrare in questa sede nella complessa rappresentazione e interpretazione del soggetto, richiamiamo l’attenzione piuttosto su alcuni dati oggettivi, utili per inquadrare l’opera almeno propositivamente: lo schema compositivo di lotta a tre soggetti ove ricorrono proprio l’eroe, il toro androcefalo e il demone, la presenza a coronamento di un segno astrale, e infine il corredo dell’iscrizione, apposta su tre colonne e che occupa un terzo della scena.

Tutti questi elementi si ritrovano nella stessa combinazione e associazione presente sul sigillo Sinopoli su numerose impronte di sigilli cilindrici apposte su tavolette iscritte dell’età di Ur III provenienti dal territorio dello stato di Lagas.

Fra queste ne proponiamo qui solo alcune, per un utile confronto[Le immagini a tratto sono desunte dalla pubblicazione di Fischer e qui riprodotte in scala di poco superiore a 1: 1 (Fischer 1992: 75, nn. 4,5: 77, n. 9). Dimensioni I: I dei disegni a tratto; h. media delle impronte: 2,1 cm.] (Fig. 12).

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In questi tre casi (Fig. 12) l’iscrizione riferisce che i proprietari del sigillo sono dei dub-sar, degli scribi (Fischer 1992: 71); in altri casi lo è un sanga, un alto funzionario del Tempio (Fischer 1992: 72 e passim).

Materiali d’impiego come la steatite e la clorite sono infine ritenuti tra i preferiti nella sfragistica di Ur III nei temi di lotta (Fischer 1992: 67).

Un altro esempio di comparazione, che qui cito soltanto, risulta quello dell’impronta con dedica nell’iscrizione da parte dello scriba al re Sulgi di Ur lll.

Il sigillo Sinopoli può rappresentare dunque a mio parere una non frequente testimonianza della matrice originale di una specifica tematica nella produzione glittica neo-sumerica, apparentemente molto diffusa accanto alla più nota scena “di presentazione”; e potrebbe appa1tenere all’ambito geografico e culturale della documentazione dalla contemporanea Lagas.

Una tappa fondamentale, e forse ineludibile per chi si dedica a questi studi, è quell’espressione del pensiero al tempo dei primi imperi, sorti nel Vicino Oriente del I millennio a.C., che si riconosce nel linguaggio dell’arte visiva d’elezione del momento, il rilievo piano, concepito dai sovrani neoassiri tra IX e VII sec. come mezzo narrativo e celebrativo, come testamento ideologico ed epico delle imprese di dominio e di unificazione dell’uni­verso mondo consegnato alla memoria collettiva sugli ortostati dei Palazzi-residenze ufficiali nelle capitali dell’impero.

La presenza nella raccolta di un frammento di ortostato scolpito [S. 90 (abbreviazione per Collezione Sinopoli n. 90); h. 38,5 cm; spess. 1,5 cm; tracce di erosione e incrostazioni.] (Fig. 13), molto verosimilmente proveniente a mio avviso dal Palazzo Nord di Ninive all’età dell’ultimo celebre sovrano Assurbanipal, rivela che Sinopoli colse in quel linguaggio e in quel tempo un passaggio straordinario nelle modalità e nelle potenzialità della comunicazione di una complessa ideologia del potere e della regalità, quale fu quella neoassira.

E infatti a tale campo di ricerca egli dedicò il suo impegno fino al giorno della scomparsa, quando di lì a breve avrebbe discusso una tesi già ricca di innovative interpretazioni e di spunti, pubblicata postuma ma ancor oggi purtroppo scarsamente nota

[G. Sinopoli, Il re e il Palazzo. Studi sull’ ‘architettura del Vicino Oriente: il hit-hilani, SanGiuliano Terme (Pisa) 2005.].

Il rilievo in questione è certo frutto di una antica mirata (e improvvida) rimozione da una lastra maggiore, probabilmente a tre registri come indicano i contesti possibili originari che proporremo; della narrazione restano due figure maschili, parte di una lunga fila di sconfitti deportati provvisti solo di piccole bisacce. Tutti i tratti di questo rilievo, dal tema alla composizione, dalla tipologia ai caratteri antiquari dei due vinti alla specie della vege­tazione che scandisce il ritmo di questo forzato percorso, si collegano al grande affresco celebrativo di una vittoria sui Babilonesi cui fa seguito la deportazione in massa di donne, uomini e bambini, apposto lungo le pareti nord-est e nord-ovest della corte interna J, cuore del Palazzo Nord di Ninive.

Il rilievo Sinopoli può collocarsi congruamente in questo ciclo narrativo e in questo spazio; e nell’ambito della sequenza certa ricostruita da R. Barnett delle lastre 4-8 sviluppata su tre registri (Fig. 14). Più specificamente, ritengo che il rilievo si inserisca nella sequenza solo logico/tematica proposta da Barnett per numerosi e dispersi frammenti probabilmente appartenenti alle lastre

10-12 (Fig. 15), ove la direzione dei deportati è univocamente da destra verso sinistra, come sulla nostra lastra.

Già in occasione dello studio dei rilievi neoassiri del Museo Barracco sollevai alcune riserve sulla giunzione del rilievo italiano con il frammento del Winnetka Museum (Dolce 1995: 204-209); riserve che mantengo, ravvedendovi una connessione apparente piuttosto che effettiva, motivata dalla ripetitività dei soggetti; e forzata, per così dire, come si deduce dal profilo anomalo, spiccatamente sinuoso, che avrebbe il fusto della palma rispetto a tutte le altre della stessa serie di rilievi.

Al di là della lacuna o meno presente in questa sequenza della Corte J, e della specifica proposta che avanzo, l’originaria appartenenza del frammento Sinopoli a questo ciclo di sculture appare assai plausibile.

Infine, l’ipotesi attributiva, se confermata, mostrerebbe anche una speciale condizione, forse utile per ulteriori riflessioni; e cioè che almeno tre resti degli ortostati neoassiri della Corte J del Palazzo Nord di Ninive raggiunsero la capitale italiana.

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